segunda-feira, 30 de novembro de 2009

Eclesiastes3:1-8


Tudo tem a sua ocasião própria, e há tempo para todo propósito debaixo do céu. Há tempo de nascer, e tempo de morrer; tempo de plantar, e tempo de arrancar o que se plantou; Há tempo de adoecer, e tempo de curar; tempo de derrubar, e tempo de edificar; Há tempo de chorar, e tempo de rir; tempo de prantear, e tempo de dançar; Há tempo de espalhar pedras, e tempo de ajuntá-las; tempo de abraçar, e tempo de abster-se de abraçar; Há tempo de buscar, e tempo de perder; tempo de guardar, e tempo de jogar fora; Há tempo de rasgar, e tempo de coser; tempo de estar calado, e tempo de falar; Há tempo de amar, e tempo de odiar; tempo de guerra, e tempo de paz.


sexta-feira, 27 de novembro de 2009

ESCRITO POR REGINA BRETT, 90 ANOS, CLEAVELAND, OHIO.


Para celebrar o envelhecer, uma vez eu escrevi 45 liçoes que a vida me ensinou.
É a coluna mais requisitada que eu já escrevi. Meu taxímetro chegou aos 90 em agosto, então, aqui está a coluna, mais uma vez:
1. A vida não é justa, mas ainda é boa...
2.Quando estiver em dúvida, apenas dê o próximo pequeno passo.
3. A vida é muito curta para perdermos tempo odiando alguém.
4. Seu trabalho não vai cuidar de você quando você adoecer. Seus amigos e seus pais vão. Mantenha contato.
5. Pague suas faturas de cartão de crédito todo mês.
6. Você não tem que vencer todo argumento. Concorde para discordar.
7. Chore com alguém. É mais curador do que chorar sozinho.
8. Está tudo bem em ficar bravo com Deus. Ele agüenta.
9. Poupe para a aposentadoria, começando com seu primeiro salário.
10. Quando se trata de chocolate, resistência é em vão.
11. Sele a paz com seu passado, para que ele não estrague seu presente.
12. Está tudo bem em seus filhos te verem chorar.
13. Não compare sua vida com a dos outros. Você não tem idéia do que se trata a jornada deles.
14. Se um relacionamento tem que ser um segredo, você não deveria estar nele.
15 Tudo pode mudar num piscar de olhos; mas não se preocupe, Deus nunca pisca.
16. Respire bem fundo... Isso acalma a mente.
17. Se desfaça de tudo que não é útil, bonito e prazeroso.
18. O que não te mata, realmente te torna mais forte.
19. Nunca é tarde demais para se ter uma infância feliz. Mas a segunda só depende de você.
20. Quando se trata de ir atrás do que você ama na vida, não aceite "não" como resposta.
21. Acenda velas, coloque os lençóis bonitos, use a lingerie elegante. Não guarde. Use!
22. Se prepare bastante; depois, se deixe levar pela maré...
23. Seja excêntrico agora, não espere ficar velho para usar roxo.
24. O órgão sexual mais importante é o cérebro.
25. Ninguém é responsável pela sua felicidade, além de você.
26. Encare cada "chamado" desastre com essas palavras: Em cinco anos, vai importar?
27. Sempre escolha a vida.
28. Perdoe tudo de todos.
29. O que outras pessoas pensam de você não é da sua conta.
30. O tempo cura quase tudo. Dê tempo.
31. Independentemente de a situação ser boa ou ruim, irá mudar.
32. Não se leve tão a sério. Ninguém mais leva...
33. Acredite em milagres.
34. Deus te ama por causa de quem Ele é, não pelo que vc fez ou deixou de fazer.
35. Não faça auditoria de sua vida. Apareça e faça o melhor dela agora.
36. Envelhecer é melhor do que morrer jovem.
37. Seus filhos só têm uma infância.
38. Tudo o que realmente importa, no final, é que você amou.
39. Vá para a rua todo dia. Milagres estão esperando em todos os lugares.
40. Se todos jogássemos nossos problemas em uma pilha e víssemos os de todo mundo, pegaríamos os nossos de volta.
41. Inveja é perda de tempo. Você já tem tudo o que precisa.
42. O melhor está por vir.
43. Não importa como vc se sinta, levante, se vista e apareça.
44. Produza.
45. A vida não vem embrulhada em um laço, mas ainda é um presente.

Elisione e Troncamento (TRECCANI)


"Qual è" piuttosto che "qual'è"

Non sappiamo bene a quale dimensione temporale ci si riferisca quando ci si chiede perché "ora" si prediliga la forma qual è. Sta di fatto che in italiano questa è la forma corretta, poiché non siamo in presenza di elisione (cioè della perdita della vocale finale non accentata di una parola davanti alla vocale iniziale della parola seguente), normalmente segnalata dall'apostrofo nella lingua scritta, bensì di troncamento o apocope. Il troncamento consiste nella caduta di un elemento fonico in fine di parola, indipendentemente da come cominci quella successiva, e può essere o non essere segnalato dall'apostrofo (la situazione varia da parola a parola sottoposta a troncamento). Ci può essere troncamento di una sillaba (grande / gran) o di una vocale (signore / signor). Ci sono casi di troncamento facoltativi, altri obbligatori. Perché si possa avere l'apocope vocalica devono essere soddisfatte alcune condizioni: 1. La vocale interessata deve essere atona e diversa da a (come nel caso di quale), anche se la i e la e non sono soggetti a troncamento quando contrassegnano una forma plurale (non si può dire o scrivere *i buon padri o le buon madri); 2. La consonante che precede la vocale finale deve essere l (come nel caso di quale), r, n o m.

terça-feira, 24 de novembro de 2009

Dell'uso degli ausiliari


L’uso degli ausiliari “essere” o “avere” in alcuni casi mi risulta poco chiaro. È più corretto dire «l’aereo era decollato» oppure «aveva decollato»? «Non eravamo potuti venire» o «non avevamo potuto venire»? E perché il participio passato viene accordato così liberamente? Inoltre: «ho mangiato una mela» o «mi sono mangiato una mela»? -->
Luana Torchia
1) L’uso degli ausiliari “essere” e “avere” in alcuni casi, cioè con i verbi intransitivi (tipici i verbi che indicano movimento, come decollare, per l’appunto) e con i cosiddetti verbi meteorologici (piovere, grandinare, nevicare, ecc.) è oscillante (la lingua non è un teorema matematico) e, nei casi dubbi, è consigliabile ricorrere a una buona grammatica o al vocabolario.
2) Avere/essere in presenza di verbi servili + infinito. La questione dell’ausiliare richiesto da un verbo servile (potere, dovere, volere, sapere ‘essere in grado di, avere la capacità di’) è regolata dalla norma grammaticale. Secondo tale norma, l’ausiliare è quello proprio dell’infinito: «ho dovuto fare» perché si dice «ho fatto», «ho potuto rispondere» perché si dice «ho risposto» e via dicendo; viceversa, «non sono potuto venire/uscire/partire ecc.» perché si dice «non sono venuto/uscito/partito».
La norma prevede la possibilità di una deroga. Si può cioè usare l’ausiliare avere se il verbo retto è intransitivo: «ho dovuto venire/uscire/partire ecc.» è ammissibile quanto «sono dovuto venire/uscire/partire».
Luana Torchia
1) L’uso degli ausiliari “essere” e “avere” in alcuni casi, cioè con i verbi intransitivi (tipici i verbi che indicano movimento, come decollare, per l’appunto) e con i cosiddetti verbi meteorologici (piovere, grandinare, nevicare, ecc.) è oscillante (la lingua non è un teorema matematico) e, nei casi dubbi, è consigliabile ricorrere a una buona grammatica o al vocabolario.
2) Avere/essere in presenza di verbi servili + infinito. La questione dell’ausiliare richiesto da un verbo servile (potere, dovere, volere, sapere ‘essere in grado di, avere la capacità di’) è regolata dalla norma grammaticale. Secondo tale norma, l’ausiliare è quello proprio dell’infinito: «ho dovuto fare» perché si dice «ho fatto», «ho potuto rispondere» perché si dice «ho risposto» e via dicendo; viceversa, «non sono potuto venire/uscire/partire ecc.» perché si dice «non sono venuto/uscito/partito».
La norma prevede la possibilità di una deroga. Si può cioè usare l’ausiliare avere se il verbo retto è intransitivo: «ho dovuto venire/uscire/partire ecc.» è ammissibile quanto «sono dovuto venire/uscire/partire». Luca Serianni, nella sua preziosa Prima lezione di grammatica (Laterza, 2006), ci ricorda che Luciano Satta aveva già raccolto, in Matita rossa e blu (Bompiani, 1989), numerosi esempi tratti da valenti scrittori italiani (Maraini, Citati, Magris, Eco, La Capria) che documentavano l’uso dell’ausiliare avere (per il servile) con verbi intransitivi. Inoltre, se l’infinito è essere, l’ausiliare del verbo servile è avere («avrebbe potuto essere il migliore»). In caso di infinito passivo, l’ausiliare è quello proprio dei verbi transitivi, cioè avere («avrebbe dovuto essere lodato»).
L’uso di avere se il verbo retto è intransitivo si sta allargando. Serianni spiega questa linea di tendenza con ragioni di economia linguistica in via di affermazione: 1. l’uso di avere consente di eliminare la preoccupazione per l’accordo: «le ragazze sarebbero dovute partire» / «le ragazze avrebbero dovuto partire»; 2. il verbo servile, se usato da solo, vuole l’ausiliare avere e tende a imporre questa scelta anche quando regge un infinito: «hanno provato a uscire prima, ma non hanno potuto», da cui la propensione a dire «non hanno potuto uscire prima»; 3. l’ausiliare avere è già obbligatorio nel caso in cui con l’infinito si combini un pronome atono: «non ho potuto venirci»; se invece il pronome atono viene prima delle forme verbali, si ricade nella regola generale che impone essere: «non ci sono potuto venire».
3) In realtà il participio non viene «accordato così liberamente». Ecco i cinque casi di accordo.a. Accordo del participio di un verbo composto con l’ausiliare avere, in presenza di complemento oggetto posposto. «Ho mangiato pietanze saporite» / «Ho mangiate pietanze saporite». Molto più frequente e dunque consigliabile la prima soluzione.b. Accordo del participio di un verbo composto con l’ausiliare avere, in presenza di oggetto anteposto, quando l’oggetto sia costituito da un pronome personale o relativo. «Vi ha salutato» / «Vi ha salutati»; «La macchina che ho venduto» / «La macchina che ho venduta». c. Accordo del participio di essere o di un verbo copulativo col soggetto, con il nome del predicato o con il complemento predicativo. «Lo stratagemma è stato, è risultato una banalità» / «Lo stratagemma è stata, è risultata una banalità».d. Accordo del participio di un verbo pronominale con il soggetto o con il complemento oggetto, anteposto o posposto. «La decisione che ci siamo imposti (o imposte, se il soggetto è di genere femminile)» / «La decisione che ci siamo imposta».e. In rapporto al genere, maschile o femminile, accordo della forma verbale composta con il pronome allocutivo lei o ella riferito a un uomo. «Lei (o ella), dottor Bianchi, è stato invitato formalmente alla riunione» / «Lei, dottor Bianchi, è stata invitata formalmente alla riunione».Chiarito il punto a, si dirà che nei casi b, c e d la lingua italiana ha sempre offerto la coesistenza delle due possibilità, le quali, dunque, vanno considerate entrambe legittime. Nel caso presentato al punto e, si osserverà che il riferimento al genere naturale è molto forte, quasi cogente, con gli aggettivi: impossibile pensare a una soluzione del tipo «Lei, dottor Bianchi, non è attenta». In una comunicazione scritta caratterizzata da un alto tasso di formalità, può essere ammissibile o, perfino, opportuno ricorrere all’accordo al femminile, in presenza di forma verbale composta; in questo caso, però, il registro formale dovrebbe essere confermato da altri segnali, quali l’uso dell’allocutivo ella in luogo di lei e l’adozione delle maiuscole reverenziali, sia in principio sia all’interno di parola (Ella avrà la pazienza di rispondere; in attesa di un Suo gentile riscontro; nel ricordarLe gli impegni assunti).
4) Ho mangiato una mela/Mi sono mangiato una mela. In realtà, qui è in gioco l’uso dei pronomi personali atoni con funzione affettivo-intensiva, quando cioè si vuole porre in evidenza la partecipazione personale, spesso emotivamente marcata, del soggetto all’azione. In questi casi altre lingue, specialmente le antiche (il greco, per esempio) avrebbero fatto ricorso alla diatesi media del verbo, che l’italiano invece non possiede: ecco perché ricorre a tale uso marcato dei pronomi personali atoni (uso che mette nei guai molti studenti, quando si tratta di distinguere tra riflessivi, riflessivi apparenti e, appunto, usi transitivi con pronomi affettivi). Quest’uso è molto esteso nel Centro e nel Meridione d’Italia («mi faccio una bella passeggiata», «ci siamo fumati tranquillamente una sigaretta», ecc.), ma si sta diffondendo e viene accettato anche nel resto del Paese. In ogni caso, da sempre gli italiani di tutte le latitudini fanno ricorso al pronome intensivo-affettivo quando si tratta di riferirsi al corpo del soggetto: «non ti mordere le unghie», «si gratta sempre la testa», «soffiatevi il naso». L’uso del pronome atono con funzione intensivo-affettiva si estende anche ad attività inerenti l’organismo umano («asciugarsi il sudore») e ai nomi di vestiario («mettiti la sciarpa», «entrati, si tolsero il cappello»).

quarta-feira, 18 de novembro de 2009

Alda Merini


"TUTTO QUELLO CHE FACCIAMO NON È CHE UNA GOCCIA NELL'OCEANO, MA SE NON LO FACCIAMO, QUELLA GOCCIA, LA TUA GOCCIA, MANCHERÀ PER SEMPRE."

segunda-feira, 16 de novembro de 2009

Perguntei a um sábio (William Shakespeare )


Perguntei a um sábio, a diferença que havia entre amor e amizade, ele me disse essa verdade...O Amor é mais sensível, a Amizade mais segura. O Amor nos dá asas, a Amizade o chão. No Amor há mais carinho, na Amizade compreensão.O Amor é plantado e com carinho cultivado, a Amizade vem faceira, e com troca de alegria e tristeza, torna-se uma grande e querida companheira. Mas quando o Amor é sincero ele vem com um grande amigo, e quando a Amizade é concreta, ela é cheia de amor e carinho. Quando se tem um amigo ou uma grande paixão, ambos sentimentos coexistem dentro do seu coração.

sábado, 14 de novembro de 2009

L'Importanza dei carboidrati sull'umore ( LA STAMPA)



'
Dieta povera di carboidrati rende tristi

ROMA - Il sospetto c'era già: se si mangia meno pasta, si vede nero; uno studio australiano ha ora confermato che una dieta povera di carboidrati (pasta, pane) e ricca di grassi, protratta per almeno un anno, provoca ansia e depressione, perché isola socialmente e diminuisce la produzione di serotonina nel cervello, una sostanza che ha effetti benefici sull'umore. Lo studio 'Effetti sull'umore e sulla memoria di diete con pochi carboidrati o pochi grassì, condotto da un gruppo di esperti guidati da Grant Brinkworth del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization-Food and Nutritional Sciences, è stato pubblicato sulla rivista Archives of Internal Medicine. I ricercatori hanno monitorato 122 partecipanti, sovrappeso e obesi, di età compresa tra i 24 e i 64 anni per 52 settimane, prescrivendo a un primo gruppo una dieta composta da una percentuale molto alta di grassi (61%) e bassa di carboidrati (4%), pari a una quantità di 40 grammi al giorno. Il regime dietetico del secondo gruppo, invece, era basato per il 46% di carboidrati e il 30% del totale di grassi, con una restrizione fino a 10 grammi al giorno per i grassi saturi. Entrambi i gruppi, sottoposti a vari test cognitivi e dell'umore, hanno dimostrato un miglioramento psicologico e della memoria a soli due mesi dall'inizio della dieta. La differenza è, invece, emersa sul lungo periodo: dopo un anno chi era stato messo a 'stecchetto' di carboidrati ha provato infelicità, depressione e ansia. Il livello della memoria e il peso corporeo migliorano ma in pari misura nei due gruppi, entrambi più veloci nel ricordare e dimagriti di 13 chilogrammi.

quinta-feira, 12 de novembro de 2009

Il dialetto "Romanaccio" de Roma



'N SORISO

Che me costava 'n soriso ieri, sulla porta
quanno tu, delicata e ingenua,
m'hai comprato le MS senza filtro
'nvece de le Marlboro?
Che me costava 'n soriso all'incrocio
quanno 'na vecchietta bacucca
m'ha attraversato cor rosso
e m'è toccato inchioda' de brutto?
Che me costava 'n soriso alla cassiera der supermercato
quanno stavo a pagà,
dopo che pe' dimme du'euri
m'ha sputato sui facioli e sulli pommodori?
'N soriso, dimoselo,
nun se fa fatica a fa 'nsoriso
e stasera, quanno magnerò le pasta scotta
penzando che l'hai fatta colle mani tue dorci e delicate,
che me costerebbe fatte 'n soriso?
E ar collega mio che la matina arriva tardi
e nun fa un cazzo tutto er giorno,
che me costerebbe a faje 'n soriso?
E anche a sto stronzo puzzolente
che me stà a pistà er calletto de continuo
mentre sto su 'a metro
de ritorno stanco morto de lavoro,
nun me costerebbe gniente faje 'n soriso.
Come pure ar capoufficio
che rompe li cojoni de continuo,
che me costerebbe faje 'n soriso?
Certo nun me costerebbe proprio niente..... .....
Ma...
perchè... ...
se li mannassi AFFANCULO
me costerebbe quarche cosa?????

segunda-feira, 2 de novembro de 2009

Sobre Música Na Aprendizagem Escrito por Luciana DO Rocio







APRENDER COM MUSICA

A técnica de ensinar através de música é excelente e facilita a aprendizagem . Pois trabalha com os dois lados do cérebro . Pesquisadores concluíram que a música atinge melhor o subconsciente do que qualquer outra arte , sem falar que quando cantamos ou ouvimos uma canção o nosso cérebro libera uma substância chamada endorfina que é responsável pelo bom – humor , o que é capaz de despertar mais interesse por parte dos alunos . Por estes mesmos motivos os publicitários mais inteligentes trabalham com canções em suas campanhas e estas conseguem cair na boca do público facilmente .
No ensino a música na sala de aula é utilizada desde os antigos gregos e esta prática faz sucesso , atualmente , nos cursinhos de pré – vestibular . Porém é preciso recordar que esta aprendizagem através de canções não é só privilégio dos vestibulandos .
Quando eu era estudante , em 1982 na época em que Plutão era planeta , a professora utilizou um samba para que os alunos memorizassem os nomes dos planetas . Na letra desta canção havia as iniciais deles . O samba era este : Minha velha , traga meu jantar : sopa , uvas , nozes e pão . A primeira letra “ m “ da palavra “ minha “ equivalia ao planeta Mercúrio ; a letra “v” de velha lembrava Vênus ; A letra “t” de traga recordava Terra ; o “m” de minha equivalia a Marte ; “j” de jantar lembrava Júpiter ; o “s” de sopa recordava Saturno ; o “u” de uvas equivalia a Urano ; o “n” recordava Netuno e “p” de pão saudava o nosso saudoso Plutão . Quando a mestra cantou esta canção na sala de aula todos os estudantes aprenderam os nomes dos planetas em menos de três minutos .
Outra aula inesquecível com música , foi em 1985 na minha quinta série , quando a professora Lourdes de Língua Portuguesa chegou em sala de aula e exclamou :
- Ensinarei os advérbios para vocês através de uma música !
Então ela começou a cantar e a escrever , estes advérbios em ritmo de rock : a , ante , até , após , de , desde , para , per , perante , por , ante e trás .
Assim a mestra disse :
- Vamos cantar de novo !


Porque Aprender Italiano?
Um grande percentual de estudantes de Italiano combina seus estudos lingüísticos com carreiras em administração de empresas, web design, ciências da computação, artes, direito, relações públicas, jornalismo, telecomunicação, ciências políticas, relações internacionais, comércio exterior, ciências sociais, música, culinária, história, biomedicina, etc. Os estudantes de Italiano afirmam que saber Italiano melhorou significativamente suas oportunidades profissionais e acadêmicas. A Itália é uma das maiores forças econômicas do mundo. Italiano está entre as 5 línguas mais estudadas como segunda língua do mundo.
Habilidades comunicativas: em muitas carreiras nota-se o benefício de comunicar-se com Italianos natos. Em qualquer área da administração é sempre bom falar a língua do seu cliente. Empregos em empresas: No mundo todo, as empresas têm precisado se globalizar, conhecimento da língua Italiana é um diferencial importante na hora de procurar um emprego.
Empregos no governo: nas áreas de diplomacia e comércio exterior, o governo federal está sempre procurando pessoas qualificadas com habilidade de língua Italiana. Pesquisa: não importa a área de especialização, conhecimento de Italiano é necessário muitas vezes para fazer pesquisas acadêmicas, administrativas ou pesquisas sociais. Arte e cultura: não importa quão boa é a tradução, inevitavelmente alguma coisa se perde no processo. Portanto, para beneficiar-se da riqueza do teatro, literatura, opera, filmes, conhecimento da língua é essencial. Outros aspectos da cultura Italiana apenas podem ser apreciados por aqueles que entendem e falam Italiano.

sábado, 31 de outubro de 2009

SQUARCI D'ITALIA

























ALCUNI VERSI DEL POETA MONTALE




La Storia

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l'ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a paco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell'orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C'è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s'incontra l'ectoplasma
d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

La Bufera
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell'oro
che s'è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d'istante - marmo manna
e distruzione - ch'entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l'amore a me, strana sorella, -
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa...
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti - per entrar nel buio.






quinta-feira, 29 de outubro de 2009

Equilibrio!!!! http://www.portalangels.com







A palavra "chakra" vem do Sânscrito e significa "roda de luz". Chakras são pontos de energia de diferentes vibrações, representando diferentes aspectos do corpo, da alma e do espírito. Simbolizam a lei da natureza, estando em constante movimento. Eles estão localizados ao longo da coluna vertebral do corpo humano.
Sua função é de receber e transmitir energia para as áreas afetadas do corpo físico, trazendo o equilíbrio. Trabalhando com os chakras, é possível unir todos os aspectos de nossas vidas, incluindo os aspectos físicos, materias, espirituais, sexuais e etc.
No corpo físico, encontra-se sete chakras principais, sendo três mestres e quatro maiores. Sabemos que existe trezentos chakras menores espalhados pelo corpo físico. Também há muitos chakras que se encontram fora do corpo. Quando todos os chakras estão abertos e balanceados, a energia nos permite comunicar com os espíritos do Universo.
Os chakras são divididos da seguinte maneira:
- Os três chakras localizados na cabeça e na região da garganta, são governados pela razão.
- Os chakras que estão localizados na frente do corpo, são governados pela emoção.
- Os chakras que estão localizados na parte de trás do corpo, são governados pelo desejo.
Cada chakra está associado com uma das sete cores do arco-íris.
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Chakra Coronário
Nome Sânscrito: SAHASRARA
Mantra: HUM
Localização: Em cima da cabeça
Cor: Violeta e Branco
Elemento: Todos os elementos
Zodíaco: Capricórnio, Peixes, Saturno e Netuno
Planetas: Nenhum
Massagem: Para mulheres, faça massagem no chakra no sentido horário e para os homens faça massagem no sentido anti-horário
Funções: Revitaliza o cérebro
Cristais: Alexandrita, Ametista e Diamante
Qualidades Positivas: Percepção além do tempo e do espaço, Abre a consciência para o infinito
Qualidades Negativas: Alienação, Confusão, Depressão e Falta de Inspiração
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Chakra 3º Olho
Nome Sânscrito: AJNA
Mantra: KSHAM
Localização: Entre as sobrancelhas
Cor: Violeta escuro
Elemento: Luz
Zodíaco: Sagitário, Aquário e Peixes
Planetas: Mercúrio, Vênus e Urano
Massagem: Para mulheres, faça massagem no chakra no sentido horário e para os homens faça massagem no sentido anti-horário
Funções: Revitaliza o sistema nervoso e Visão
Cristais: Azurita, Lápis Lazuli e Quartzo
Qualidades Positivas: Concentração, Devoção, Intuição, Imaginação, Realização da alma e Sabedoria
Qualidades Negativas: Dores de cabeça, Falta de concentração, Medo, Problema nos olhos, Pesadelos e Tensão
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Chakra Laríngeo
Nome Sânscrito: VISSOEDHA
Mantra: HAM
Localização: Garganta
Cor: Azul claro
Elemento: Éter
Zodíaco: Gêmeos, Touro e Aquário
Planetas: Marte, Vênus e Urano
Massagem: Para mulheres, faça massagem no chakra no sentido anti-horário e para os homens faça massagem no sentido horário
Funções: Som, Vibração e Comunicação
Cristais: Aquamarina, Lápis Lazuli, Sodalita, Turqueza e Topaz azul
Qualidades Positivas: Comunicação, Criatividade, Conhecimento, Honestidade, Integração, Lealdade e Paz
Qualidades Negativas: Depressão, Ignorância e Problemas na comunicação
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Chakra Plexo Solar
Nome Sânscrito: MANIPOERA
Mantra: RAM
Localização: Abaixo do coração
Cor: Amarelo
Elemento: Fogo
Zodíaco: Leão, Sagitário e Virgem
Planetas: Sol, Júpiter, Marte e Mercúrio
Massagem: Para mulheres, faça massagem no chakra no sentido anti-horário e para os homens faça massagem no sentido horário
Funções: Digestão, Emoções e Metabolismo
Cristais: Âmbar, Olho de Tigre e Ouro
Qualidades Positivas: Autocontrole, Autoridade, Energia, Humor, Imortalidade, Poder pessoal e Transformação
Qualidades Negativas: Medo, Ódio, Problema digestivo e Raiva
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Chakra Cardíaco
Nome Sânscrito: ANAHATA
Mantra: YAM
Localização: Coração
Cor: Verde
Elemento: Ar
Zodíaco: Leão e Libra
Planetas: Sol, Vênus e Saturno
Massagem: Para mulheres, faça massagem no chakra no sentido horário e para os homens faça massagem no sentido anti-horário
Funções: Energiza o sangue e o corpo físico
Cristais: Esmeralda, Jade verde, Quartzo e Turmalina verde ou rosa
Qualidades Positivas: Amor incondicional, Compaixão, Equilíbrio, Harmonia e Paz
Qualidades Negativas: Desequilíbrio, Instabilidade emocional, Problemas de coração e circulação
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Chakra Umbigo
Nome Sânscrito: SVADISTHANA
Mantra: VAM
Localização: Umbigo
Cor: Laranja
Elemento: Água
Zodíaco: Câncer, Libra e Escorpião
Planetas: Lua, Vênus, Marte e Mercúrio
Massagem: Para mulheres, faça massagem no chakra no sentido horário e para os homens faça massagem no sentido anti-horário
Funções: Força e Vitalidade física
Cristais: Âmbar, Aventurina, Carnélia e Coral
Qualidades Positivas: Assimilação de novas idéias, Dar e Receber, Desejo, Emoções, Mudanças, Prazer, Saúde e Tolerância.
Qualidades Negativas: Confusão, Ciúme, Impotência, Problemas da bexiga e Problemas Sexuais.
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Chakra Base
Nome Sânscrito: MOELADHARA
Mantra: LAM
Localização: Base da espinha
Cor: Vermelho
Elemento: Terra
Zodíaco: Áries, Marte, Touro e Escorpião
Planetas: Nenhum
Massagem: Para mulheres, faça massagem no chakra no sentido anti-horário e para os homens faça massagem no sentido horário
Funções: Traz vitalidade para o corpo físico
Cristais: Obsidiana, Quartzo fumê, Rubi e Turmalina Preta
Qualidades Positivas: Coragem, Estabilidade. Individualidade, Paciência, Saúde, Sucesso e Segurança.


Qualidades Negativas: Insegurança, Raiva, Tensão e Violência.













domingo, 25 de outubro de 2009

Mario Quintana



Das utopias
Se as coisas
são inatingíveis... ora!

não é motivo para não quere-las...

Que tristes os caminhos, se não fora

a magica presença das estrelas!

quinta-feira, 22 de outubro de 2009

Para pensar.....

DA ETERNA PROCURA
"Só o desejo inquieto, que não passa,
Faz o encanto da coisa desejada...
E terminamos desdenhando da caça
Pela doida aventura da caçada."
DA FELICIDADE
"Quantas vezes a gente, em busca da ventura,
Procede tal e qual o avozinho infeliz:
Em vão, por toda parte, os óculos procura,
Tendo-os na ponta do nariz!"
Mário Quintana

domingo, 18 de outubro de 2009

Un momento di nostalgia per Venezia.




Protocollo del Registro dei Testi e Partiture: EDNA/ DF 2009 N. 29

Ecco i testi delle prime canzoni composte per il mio corso di Lingua italiana attraverso la musica.

Letra: LE VOCALI / Autor: Ângelo Antoniani

Nella lingua italiana
le vocali sono cinque.
Sempre concludono le parole:
"A"- "E"- "I"- "O"- "U".

"A"- "E"- "I"- "O"- "U"
inizian con la "A" di casa.
Devi apprenderle a memoria
e non scordartele mai più.

C'è la "E" di Età,
c'è la "I" di Virtù,
c'è la "O" di Comò
con la "U" di Lassù.

Quando terminano con l'accento,
devi esserne contento,
la parola al singolare,
sarà come al plurale.

Letra: Ci ghi ghe / Autor: Ângelo Antoniani

Ci ghi ghe
che cosa c'è.
ce qui chi
ma che gran chichirichi.

Fonemi nuovi da formare,
altri suoni da imparare.
ne ho tanti nella mente
li vedremo alla lente.

NH suona un po' strano
un "G" sembra star lì.
Sogno gnomi in uno stagno
mio cognato che fà il bagno.

La campagna è il mio regno,
faccio centro al tirassegno.
Là c'è "SCIE" di coscienza
con la "scienza" vuole la "i".

"LH" da ponderare,
ad un coniglio mi fà pensare.
Polo pollo ascolta quà
una doppia cosa fà.

Questo pare una confusione
Oh che bella situazione.

Ma per far pronuncia lieve,
tutto ciò studiar si deve.
È importante ricordare
per poter ben pronunciare.

Letra: Ghiottoni / Autor Ângelo Antoniani

Siamo i ghiottoni
e vogliam mangiare
la nostra colazione
ti presentiam.

Biscotti e cioccolata,
burro e marmelata,
succo di arancia
latte e caffè.

Poi a mezzogiorno
già è ora di pranzo,
tutti siamo a tavola
grande è l’ allegria

Eco qua ci son i bichieri
com i piatti fondi e piani
le posate tra mani
tutti pronti a cominciar.

Gnocchi e tagliatelle
maccheroni col ragù,
pesce fritto a volontà
che gran bontà!
Buon appetito!

Letra: UN, DUE TRE / Autor: Ângelo Antoniani

Un, due tre
lo insegno anche a te,
quattro, cinque , sei
senza il cinque sono pari.

Sette, pìu uno fà Otto però,
mancano il nove e il dieci.

Undici è vicino ad una dozzina,
dodici sei più sei si deve far.
tredici , tutti , vogliono mangiare,
quattordici, si dovrebre riposar.

Ma quanti numeri, dobbiamo contar,
sono próprio tutti da imparare.

Ma sono Le quindici e cosa si fà,
tutti a casa si và.

Letra: Preposizioni e l’amore / Autor: Ângelo Antoniani

Preposizioni e articoli
dobbiamo ricordare
per sapere dove andare
e da dove ritornar.

Di – A – Da- In – Su
Per – Con- Tra- Fra
ecco Le Preposizioni.

Semplici si chiamano
quando sono li da sole
hanno bisogno dell’ articolo
per riferirsi alle parole.

Del babbo è il violino
della mamma è il golfino
dei bimbi l’allegria
degli anziani la nostalgia.

Le stelle sono in cielo
nei Boschi cè tanto gelo
nella nebbia dei ricordi
una luce risplenderà.

Due giovani camminano
la mano nella mano
sul binário solitário
e il trenó arriva già.

Lui parte per la guerra
ma continua a ricordare
passan gli anni nel silenzio
ma non può dimenticar.

Con gioia e allegria
stiam qui in compagnia
per cantare con ardore
la lingua dell’amore.

Letra: LA SETTIMANA/ Autor: Ângelo Antoniani

Due parole vogliamo spendere
sulla nostra settimana.
Sette giorni sono citati
che trascorrono così:

Tra domenica e martedì
vi presento il lunedì.
Alla luna il nome deve
il riposo finisce quì.

Poi a Marte, dobbiam pensare
e gia arriva il martedì
e si deve considerare
che conclude il carnevale.

A metà della settimana
ecco a voi il mercoledì;
di Mercurio il nome è usato
e il messaggero é già volato.

Agnus dei, Conciliazione,
sono sempre di giovedì.
Questo è il giorno del grande Giove
degli dei, il possente rè.

Finalmente arriva Venere con il suo bel venerdì,
e a sera, tutti al mare
noi andremo a passeggiar.

E al sabato siam tutti stanchi
ci si deve riposare
per fortuna c'è la domenica
che al Sole ci fà pensare.

Ecco qua i sette pianeti
che son stati nominati
e le quattro settimane
che un mese conterrà.

Letra: I mesi dell'anno/ Autor: Ângelo Antoniani

Dimmi un po' mio caro amico,
questi nomi suonano strani,
cosa esprimono, da dove vengono,
questa storia com'è.

E va bene mi hai convinto,
li vedremo uno alla volta,
miti e dei racconteremo
e di ciò che un giorno fù.

GENNAIO viene da Giano,
il dio dei mutamenti,
infatti è il primo mese
come l'alba di un nuovo giorno.

Dal latino "Februare"
FEBBRAIO il nome prende,
la dea Fabris purificava
come rimedio agli errori.

E poi c'è MARZO
guarda il sole, prendi l'ombrello,
ed APRILE, per il latini, apriva i cuori.

MAGGIO da Maia viene, è il mese della Madonna,
GIUGNO Giunone chiama,
il grano maturo è già.

E LUGLIO, settime mese,
ci ricorda il grande Cesare,
in AGOSTO "Augustus Menses",
le viti son già piantate.

SETTEMBRE, per gli antichi
il settimo mese,
OTTOBRE con la Vendemmia,
Autunno é già.

Per il Romani il nono mese,
NOVEMBRE è proprio lui,
e nell' Estate di S. Martino,
ecco il mosto diventa vino.
E a DICEMBRE il decimo mese,
un bimbo in una grotta è nato,
ha scaldato i nostri cuori, ci ha insegnato l'amor.

Letra: GENTE DEL POPOLO / Autor Ângelo Antoniani

Questa è una storia
di gente Del popolo
che a dovuto abbandonar
la terra amata
Hanno abbacciato i loro cari
con il profumo dei Verdi Boschi nel cuor

Sono partiti
dal porto di Genova
per emigrare tutti insieme
in América

Tutti ne parlano
con tanto clamore
dove si trova nessuno lo sà

In mezzo al mare
sul bastimento
le notti passano con grande tormento

Tra balli e canzoni
speranze e illusioni
al nuovo mondo noi vogliamo arrivar

Ecco il gran giorno
al porto di Santos
qui noi speriamo di trovar
una nuova patria

Stiam tutti uniti
ad aspettare
che arrivi qualcuno
che ci possa aiutare

Un buon mestiere
dobbiam trovare
mamma Che caldo come faremo a lavorare

Riso e fagioli
arroz qui lo chiamano
quante banane quanti cocchi da mangiare

In questa terra
di gioia e dolore
língua e costumi noi dobbiamo imparare

E quando è sera
siam tutti a cantare
una chitarra ci fa piangere e sospirar

Ma qui abbiamo
l’Itália nel cuore a saudade
anche noi la conosciamo
il triccolore ci parla d’amore prati e montagne
fiumi e campagne e valli d’or.

Letra: II PASSATO/ Autor Ângelo Antoniani

"IL" "LO" "LA"
"I" GLI" "LE"
"DI" "A" "DA"
noi sappiamo già.
Il maschile e il femminile
son già tutti nella nostra mente.

E "Potere" e "Dovere"
con "Volere" sono i MODALI
poi c'è "ESSERE" ed "AVERE"
definiti AUSILIARI.

Ma che cosa ausiliano
per favore, fammi capire
e il participio, che tempo strano,
dimmi un po' cosa fà.

Miei figlioli,
vediamo subito
come spiego questa cosa,
l'Italiano è un po' diverso
quando esprime ciò che passò.

Ho pensato, ho immaginato
sono stato a ricordare,
ho avuto l'ispirazione
e quà scrivo per voi.

Per capire il passato prossimo
lo dobbiamo analizzare
e vedere cosa succede
dipendendo dall'ausiliar.

Con il proprio verbo Essere,
ecco ENTRARE ed USCIRE,
c' è ANDARE e VENIRE,
"ARRIVARE" ed anche "PARTIR".

Tutti loro che si muovono
devon essere osservati
una voce si modifica
quando "ESSERE" è ausiliar.

E poi abbiamo tante azioni
che richiedono il verbo 'AVERE'
che accompagna il participio
che non muderà mai.

Ho cercato di rispondere
e chiarire quel che succede
ma sappiate che il passato prossimo
può portarci via nel tempo.

Sono stato anch'io giovane
ho vissuto la vostra età,
e con voi sono tornato
a quel tempo che fù.

sexta-feira, 2 de outubro de 2009

Quì sono nato.




Cittadina di Sulmona (circa 25000 abitanti), che sorge ad un'altezza di 400 metri sopra il livello del mare, è il centro più importante della Valle della Peligna, distesa divide i Parchi Nazionali dell'Abruzzo e della Majella.
Tuttavia, nonostante la sua splendida posizione geografica, Sulmona deve senza dubbio il suo fascino alla sua ricchissima tradizione storica. Già città natale del poeta latino Ovidio, l'autore delle Metamorfosi, di ben due papi, Celestino V e Innocenzo VII, del letterato Giuseppe Capogrossi, la legenda vuole che le sue origini siano addirittura legate ad uno dei compagni di Enea. Home › Folklore › Dialetto di Sulmona
Dialetto di Sulmona
Molti Sulmonesi, specialmente i più anziani, parlano ancora il dialetto, ma è un dialetto che sta sempre più perdendo la sua essenza secolare, italianizzandosi sia per l'accresciuta scolarizzazione delle masse, sia per l' influenza dei moderni mezzi di comunicazione.Per non parlare di quei genitori, che pur essendo cresciuti in famiglie dove si parlava il dialetto, ora addirittura avversano eventuali conversazioni dialettali in famiglia con i loro figli.A tal proposito vale ciò che ha detto lo scrittore siciliano Ignazio Buttitta, da Bagheria, secondo il quale chi disprezza il dialetto "sputa sulle mammelle che lo hanno allattato".D'altro canto mettersi a capo di una crociata, sarebbe qualcosa di anacronistico in un periodo in cui si parla di Unione Europea.Ma quanto meno si potrebbe contribuire, con voi visitatori, a rinverdire la memoria storica di Sulmona: ogni contributo è il benvenuto, ognuno può dire la sua, chi per raccontare un semplice aneddoto, chi per farci conoscere un nuovo soprannome o un temine dialettale non più in voga, oppure raccontare le storie dette "davanti al camino", insomma tutto ciò che può aiutare a non far morire la cultura dei nostri "tatoni e mammuccia".Se tra qualche decennio qualcuno dirà ancora: "te ricurde chela vota alloche ?", almeno ci sarà ancora qualcosa da richiamare alla memoria con nostalgia.
› Alcune regole del dialetto sulmonese
In generale si troncano i nomi propri di persona. Es.: "Nicò!" (Nicola), "Giovà!Giuvà" (Giovanni);
Alcune vocali finali (non accentate) in "-e" (Es.: "la notte, la febbre"), si trasformano in una "-e" non ben distinta, quasi sfumata.Anche le finali "-che, -cche, -ca, -cca, -co, -cco", tendono a non far sentire la "-e", la "-a" e l'"-o", sfumadole in una "-e", non ben distinta;
Le vocali finali (non accentate) in "-a, -o" (Es,: "forno, Sulmona") tendono a non farsi sentire, sfumando in una "-e", non ben distinta;
Davanti ai pronomi e nomi di persona (comuni o propri), quando sono complemento oggetto si usa la preposizione "a".Es.: "Conosce a te, chiama allu miedeche, beata a te!", che stanno per "Conosco a te, chiama al medico, beato a te!". Tipiche espressioni dell'italiano parlato nell'Italia centro meridonale;

E' radicata la pronuncia con "-b" e "-g" raddoppiate. Es.: "subbete, cugginme", che stanno per "subito, cugino";
E' di uso comune "mò" per "ora" e "stare" nel senso di "essere presente, trovarsi, non ci sta, non c'è";
E' tipico collocare il possessivo dopo il sostantivo. Es.: "la casa mè, lu cappotte tè", che stanno per "la casa mia, il cappotto tuo";
Gli aggettivi possessivi richiedono la presenza dell'articolo determinativo. (Es.: "mia moglie" diventa "la moja mè")
Si usa" tenere" al posto di "avere" nelle espressioni come "tienghe' fame, tienghe fridde" , che stanno per "tengo fame, tengo freddo";
Nei dittonghi "-ie" ed "-uo" sono accentate la "e" e la "o". Es.: "siero" diventa "siére", "vecchio" diventa "viécchie'", "petto" diventa "piétte", e "buono" diventa "buòne";
Tendenzialmente le consonanti di gruppo seguono la stessa sorte che hanno negli altri dialetti del mezzogiorno d'Italia, così "quando" diventa "quanne", "mandare" diventa "mannà", "sindaco" diventa "sindache";
Nel dialetto sulmonese manca il futuro. Per tradurre ad esempio la frase "Io lavorerò" si usa l'ausiliare "tienghe" o "atienghe", traducendo quindi la frase in questa maniera "Ji atienghe (tienghe) fatià".
Passato remoto e passato prossimo sono uguali: le frasi "Io fui bocciato" e "Io sono stato bocciato" si traducono entrambi in "Ji sò state bucciate".

Verbi
Verbo Essere -AVERE

Io sono
Ji sò
Io ho
Ji tienghe
Tu sei
Tu scì
Tu hai
Tu tè
Egli è
Iss è
Egli ha
Iss tè
Noi siamo
Nu semme
Noi abbiamo
Nu t'nemme
Voi siete
Vu sete
Voi avete
Vu t'nete
Essi sono
Lore sò
Essi hanno
Lore tienne
› Articoli
Determinativo
Indeterminativo
il
lu
un
nu
lo
lu
uno
nu
la
la
una
na
i
i
un'
n'
gli
i'


le
le


l'
l'


gl'
i'



Aggettivi Possessivi
Singolare
Plurale
mio, mia
lu mè
miei, mie
i mè
tuo, tua
lu tè
tuoi, tue
i tè
suo, sua
lu sè
suoi, sue
i sè
nostro, nostra
lu nuostre
nostri, nostre
i nuostre
vostro, vostra
lu vuostre
vostri, vostre
i vuostre
loro
lu lore
loro
i lore
Aggettivi dimostrativi
Singolare
Plurale
questo, questa
quiste, cheste
questi, queste
chiste, cheste
quello, quella
quile, chela
quei, quelle,quegli
chiji, chele
stesso, stessa
lu stesse, la stesse
stessi, stesse
i stesse, le stesse
altro, altra
n'atre, n'atra
altri, altre
i'atre

Principali pronomi ed espressioni interrogative
Perchè ?
P'rchè ?
Quando ?
Quanne?
Dove ?
Andò
Chi ?
Chè ?
Che cosa ?
Che cose ?
Quale ?
Quale ?
Quanti ?
Quante ?
C'è' ?
Ce stà ?
Ci sono ?
Ce stanne ?
Come ti chiami ?
Ma te chiame ?http://www.smpe.it/folklore/dialettosu.asp
CANZONE TIPICA
La Fija mè" di Anonimo -
Testo Dialettale

E quanne la fija mè faceve le ssagneli sclucche se sendea alla muntagne e core della mamma, e della mamma sè,massera vè la bbanda e se la porta la fija mè.E quanne la fija mè faceve lu sughe,l'addore se sendea a Sante Luche e core della mamma, e della mamma sè,massera vè la bbanda e se la porta la fija mè.E quanne la fija mè jeve alla Messeli giuvene jevene tutt'appresse a esse e core della mamma, e della mamma sè, massera vè la bbanda e se la porta la fija mè.E quanne la fija mè faceve l'amore li bace se li deve a core a core e core della mamma, e della mamma sè,massera vè la bbanda e se la porta la fija mè.
TESTO ITALIANO
Quando la figlia mia faceva le lasagnegli schiocchi si sentivano alla montagnae cuore della mamma, e della mamma sua,stasera viene la banda e si porta la figlia mia.Quando la figlia mia faceva il sugol'odore si sentiva a San Lucae cuore della mamma, e della mamma sua,stasera viene la banda e si porta la figlia mia.Quando la figlia mia si recava a Messai giovanotti andavano appresso a leie cuore della mamma, e della mamma sua,stasera viene la banda e si porta la figlia mia.Quando la figlia mia faceva l'amorei baci se li dava a cuore a cuoree cuore della mamma, e della mamma sua,stasera viene la banda e si porta la figlia mia.

"Tutte li fundanelle" di Anonimo -
Testo Dialettale

Tutte li fundanelle se sò seccatepovere amore mé more de sete.Trummalaririlà, l'amor'è bbelle,trummalaririlà, 'vviva 'll'amor!Amore, mi té sete, mi té sete.Dov'elle l'acque che mi si purtate?Trummalaririlà, l'amor'è bbelle,trummalaririlà, 'vviva 'll'amor!T'aje purtate 'na giara de crete'nghe ddu' catene d'ore 'ngatenate.Trummalaririlà, l'amor'è bbelle,trummalaririlà, 'vviva 'll'amor!
TESTO ITALIANO
Tutte le fontanelle si sono seccate povero amore mio muore di sete.Trummalaririlà, l'amore è bello,Trummalaririlà, evviva l'amor!Amore, ho sete, ho sete. Dov'e' l'acqua che mi hai portato?Trummalaririlà, l'amore è bello,Trummalaririlà, evviva l'amor! Ti ho portato una giara di cretacon due catene d'oro incatenate.Trummalaririlà, l'amore è bello,Trummalaririlà, evviva l'amor!

quinta-feira, 1 de outubro de 2009

Esta "saudade", também nos Italianos a conhecemos


Miguel Falabela





Energias para Hoje
I-Ching: 01- CH´IEN - O CRIATIVO O sucesso estará garantido se você souber agir criativamente e com senso de justiça.
Runas: Talismã contra a negatividadeDesenhe na agenda para proteção durante o mês.
1Numerologia: Novos inícios e grandes decisõesDia para tomar as rédeas da vida e determinar seu curso futuro, fixe metas e comece hoje mesmo a realizá-las. Promova suas idéias acredite em si e não aceite um não como resposta. São necessários força e autocontrole.
Para quam queira compreender um pouco a "Questão da língua e dos dialetos" na Italia
ottobre 2009 08:08Home Articoli SEZIONE: Dialetto Lingua e dialetti in ItaliaMappa del SitoContattaciDVD disponibiliChi siamoLingua e dialetti in ItaliaScritto da Angelo Antoniani martedì, 05 agosto 2008 17:12Fonte: http://www.unb.br/il/let/abpi2000/antoniani.htmCasa D’ItaliaAssociação para Incremento das Relações Brasil-ItaliaEQS 208/209 lote A – Brasilia – DF – 70254-400Tel : 61 - 443-1747Fax : 61- 443-4888E-mail :' );//-->casaditaliabsb@uol.com.br Professore : ANGELO ANTONIANI LINGUA E DIALETTI IN ITALIA Per un linguista parlare di lingua o dialetto è la stessa identica cosa. Per un linguista l’ultimo dialetto del Molise ha la stessa dignità della lingua letteraria. Certo non ha la stessa storia. Quella storia che ha condotto alcuni di questi idiomi ad essere usati in un contesto più ristretto ed altri in uno molto più amplio. Per quanto riguarda le differenze và detto che le stesse sono meno numerose e meno importanti di quanto comunemente non si creda. Entrambi derivati dal Latino, entrambi sistemi linguistici complessi e variamente articolati, la lingua italiana e uno qualsiasi dei tanti dialetti parlati nella Penisola sono ugualmente legittimi per nascita e per sviluppo, e ugualmente funzionali nel loro uso. Come l’italiano, i nostri dialetti riflettono tradizioni e culture nobili; possiedono un lessico e una grammatica: sono a tutti gli efetti delle “lingue”. Vi sono ad ogni modo delle differenze.· In genere il dialetto è usato in una area più circoscritta rispetto alla lingua, la quale invece appare difusa in una area più vasta. I motivi di tale maggiore espansione sono culturali in Italia, politici in Francia e in Spagna. Come poi vedremo meglio, le opere del Dante, Petrarca e Boccaccio diedero un grande prestigio al fiorentino del trecento: questo dialetto, divenuto lingua d’arte attraverso l’elaborazione dei tre grandi scrittori, fu in seguito adottato dalle persone colte e dai centri di potere della Penisola. In Francia e in Spagna fu invece il potere monarchico ad imporre e diffondere il dialetto usato dalla corte: nacque così una lingua dello stato e dell’amministrazione riconosciuta daí sudditi come simbolo dell’unità nazionale.L’espansione di una lingua parlata su un’area geografica più ampia, il fatto che tale lingua, divenuta lo strumento della classe dominante, possa essere scritta dai letterati, dagli organi dell’amministrazione periferica e del potere centrale; la circostanza (molto importante) che essa miri a diventare più regolare dandosi una “norma” stabilita dai grammatici ed insegnata a scuola: tuti questi fattori tendono a differenziare la lingua dal dialetto.Per quanto riguarda il lessico, la lingua estende e perfeziona il vocabolario intellettuale (scrittori e scienziati scrivono di solito in lingua); il dialetto invece arricchisce soprattutto le terminologie che si riferiscono al mondo rurale. Possono “Essere rotte le uova nel cesto”nonostante esse siano adesso collocate in opportune confezioni di cartone.È molto lontano il tempo in cui “Berta filava“ tuttavia si continua a “Star diritto come un fuso”. La luce elettrica arriva fin nei più remoti angoli ma....ancora si continua a “Mantenere la candela” I carri di buoi sono scomparsi dalla scena ma ancora si collocano”I carri davanti ai buoi”.E, acora si può essere “L’ultima ruota del carro”e, sempre si correrà il rischio di “Chiudere la stalla dopo che i buoi sono già scpappati“. L’italiano e i dialetti anche ci collocano tra gli animali domestici tra gli orti delle fattorie”Scrivere come una gallina”, credersi “Il figlio della gallina bianca”, “Pigghi doi columbr cou uma fusiladh”, fingersi di “Gatto morto”, nel gruppo c’è sempre la “Pecora nera”. E ovviamente non poteva certo rimanere fuori dalla carrellata la vecchia e sana cucina contadina :”Negro come un calderone” ;”Sugiu como na’cazzarola”. “Stare al verde“, questo a causa dell’abitudine, in una determinata epoca, di tingere di verde il fondo dei candelieri o di rivestirlo com un foglio sottile colorato; da qui, l’idea di ”possedere qualcosa in quantità esigua”.”Fuogh de pagh”, vedere qualcuno com “a fumazz nos’oglios”, antichissime espressioni che si perdono nella notte dei tempi.Voltando “a bomba”al discorso delle differenze tra lingua e dialetto, e ai fattori di carattere sociale che li distinguono:1. La lingua subisce una codificazione, vale a dire, si operano delle scelte tra forme concorrenti e quindi si propongono dei modelli; tale processo non avviene di solito nel dialetto o comunque si verifica in misura ridotta;2. La lingua possiede un uso scritto, che manca per lo più ai dialetti;3. La lingua gode di un prestigio sociale superiore a quello dei dialetti;4. La lingua ha acquisito una dignità culturale superiore a quella dei dialetti. Queste distinzioni non sono sempre e ovunque presenti. Ciò è vero soprattutto per l’Italia dove si incontrano dialetti come, per esempio, il veneto ed il napoletano,che hanno subito una codificazione, possiedono un uso scritto ed una grande dignità culturale (si pensi ad esempio all’opera del Goldoni e del Basile). Tanto che si può concludere che, in fine, l’único criterio abbastanza sicuro per distinguere la lingua dal dialetto è la minore diffusione di quest’ultimo.Propriamente il termine dialetto (dal greco Diálektos “lingua”, derivato dal verbo Dialégomai “parlo”) indica due realtà diverse:1. Un sistema linguistico autonomo rispetto alla lingua nazionale quindi un sistema che há caratteri strutturali ed una storia distanti rispetto a quelli della lingua nazionale;2. Una varietà parlata della lingua nazionale, cioè una varietà dello stesso sistema; per esempio i dialects dell’anglo-americano sono varietà parlate dell’inglese degli Stati Uniti: ovviamente tali dialetti hanno gli stessi caratteri strutturali e la stessa storia della lingua nazionale. · Con l’espressione lingua nazionale s’intende il sistema linguistico adottato da una comunità, costituente una nazione, come contrassegno del proprio carattere etnico e come strumento dell’amministrazione, della scuola, degli usi ufficiali e scritti. Sarà opportuno a questo punto, soffermarci un pochino sulla nascita del dialetto:-È una storia affascinante, oltre ché del massimo interesse. Facciamo un balzo indietro nel tempo. Arriviamo così ad un periodo antecedente quello che rappresenta il punto di partenza e di riferimento costante per la nostra storia: la nascita di Roma e l'affermarsi, attraverso i secoli, della potenza latina. I latini L'odierna capitale dell'Italia fu fondata dai Latini che, incredibile ma vero, erano una tribù indo-germanica discesa in Italia al tempo della grande invasione indo-germanica d'Europa. Popolazioni cioè originarie delle zone poste ai confini tra l'Europa e l'Asia (gli Urali, il Caucaso, l'Iran ecc.), arrivate nelle nostre terre dopo aver sostato per un periodo di tempo non breve nel nord Europa, nell'area corrispondente grosso modo all'odierna Germania. Occorsero diversi secoli, è naturale, ma alla fine i Latini, e con essi Roma, riuscirono ad emergere e ad acquistare l'egemonia su tutti i popoli che abitavano la nostra penisola.Erano genti tra loro diverse a seconda delle regioni che occupavano. Nel sud dell'Italia vi erano colonie greche; nell'Italia centrale, oltre a gruppi affini ai Latini, si trovavano gli Italici del gruppo Osco-Umbro; l'attuale Toscana - ed anche ampie zone a nord degli Appennini - ospitavano gli Etruschi, una popolazione indo-europea, dalla civiltà antichissima. I popoli e le lingue dell'Italia del nord Ma spostiamoci a nord, verso l'area padana che a noi più interessa.Questa zona era abitata, prima della venuta dei Latini, da tribù mediterranee, liguri, retiche, iberiche (originarie della penisola occupata oggi da Spagna e Portogallo), del cui linguaggio nessuna traccia scritta è rimasta. Però non poche parole o "radici", a quanto affermano gli studiosi, denunciano senz'ombra di dubbio ancor oggi la loro appartenenza a queste antiche parlate pre-latine.Eccone alcuni esempi. All'elemento "mediterraneo" si fa risalire il termine gava (torrente) e quello di insubrium (nome di Milano prima della venuta dei Celti). Allo strato "ligure", invece, appartengono le radici clav (rupe sporgente) e pala (roccia).Alla lingua "retica" - secondo alcuni studiosi i Retici erano popolazioni montane originate da quelle liguri - si devono molte parole che in seguito entrano a far parte dei dialetti lombardi e di quelli della Svizzera italiana o che, al contrario, danno origine a "nomi" di località. Eccone alcune: barga (capanna), cous (grotta), nava (conca), crenna (fessura, screpolatura stretta e lunga nelle pareti rocciose), ganda (pietrame) ecc.. Il giurassico Altro linguaggio scomparso "ufficialmente" dai documenti della storia è il giurassico, contemporaneo del ligure (quindi come questo pre-latino) che pare abbia avuto origine nelle montagne dell'attuale Giura franco-svizzero.Confrontando alcuni vocaboli di questa lingua con il dialetto milanese - il principale del ceppo lombardo occidentale, dal quale sono poi derivati gli altri dialetti di parte della regione - troviamo sorprendenti affinità. L'articolo el (il) è rimasto in dialetto tale e quale; la parola magnin (calderaio ambulante), ha dato origine alla milanese magnan. Analogamente d'origine giurassica sono la guja (ghiaa in milanese), il pungolo col quale si aizzavano i buoi, il tavan (tafano), ed il verbo rougnasser (rognà in milanese, cioè "brontolare"). I Celti È poco dopo l'anno 600 a. C. che l'equilibrio etnico esistente nello stivale subisce un primo, robusto scossone. Alle popolazioni dominanti del nord, quelle liguri cioè, si mescolano i Celti, che i Romani più tardi chiameranno Galli. Di origine asiatica, i Celti arrivano in Italia dai paesi nordici, specie dalle terre dell'odierna Germania e della Francia del nord. L'impatto che determinano è robusto, più ancora l'influenza che esercitano sulle popolazioni e sul loro modo di vivere. I Celti finiscono così per condizionare in maniera determinante la vita, i costumi, la lingua delle genti preesistenti. L'influenza celtica è lunga e duratura. I vocaboli che portano sono nuovi, tipici. Parlano in prevalenza di guerra, di armi, di fortificazioni, di leggi. Le parole di origine celtica oggi sopravvissute nei dialetti settentrionali sono moltissime, pur se in seguito modificate o alterate dal latino dei Romani conquistatori. Vediamone alcune. Anzitutto i nomi di località: Mediolanum (Milano) deve la sua origine alla parola medio e lan(n)o. Quest'ultima in celtico significava "spazio recinto e piano", forse un luogo consacrato, quindi Mediolanum voleva dire "luogo di mezzo, paese in mezzo a una pianura". Brianza deriva da brig (luogo elevato); Lecco, deve il proprio nome alla radice celtica leukos (bosco). Altre parole celtiche sono: barros (cespuglieto), mosa (acquitrino) dunum (collina), paraveredus (stallaggio), brennos (capo), dervo (quercia), briva (ponte) e così di seguito. I Romani E arriviamo finalmente alla tanto attesa svolta storica, l'arrivo dei Romani, che prima stabiliscono "colonie" e accampamenti militari (Cremona, prima colonia di diritto latino, nell'anno 218 a. C., seguita nel 214 a. C. da Mantova) e, poco alla volta, sottomettono tutte le popolazioni dell'alta Italia. È opportuno ricordare che le principali città appartengono a tribù celtiche: Mediolanum (Milano) è legata agli Insubri; Laus Pompeia (Lodi) ai Boi, Bergamo agli Orumbovi, Brescia ai Cenomani, Ticinum (Pavia) ai liguri Laevi preesistenti ecc.; comunque sia, l'avanzata dei nuovi conquistatori è inarrestabile. Lo sconvolgimento che un evento storico del genere deve aver arrecato ai popoli del nord può essere facilmente immaginato. Il modo d'interpretare le leggi, di definire gli oggetti d'uso quotidiano, di comunicare col prossimo, cambia completamente. Chi arriva da Roma non impone con la forza la nuova cultura, ma fa in modo che questa si propaghi attraverso i canali che più le sono congeniali: l'istruzione, i pubblici uffici, i documenti del vivere quotidiano, gli spettacoli, i giochi. Il latino classico di Roma - quello di Marco Tullio Cicerone e di Publio Virgilio Marone, autore dell'Eneide - quello cioè che la classe dirigente e il mondo della cultura usano, rimane per lunghi periodi la "lingua" per eccellenza di coloro che redigono documenti, contratti, scrivono opere destinate ai posteri. Al contrario, il latino usato dal volgo, dalla gente umile, perde anno dopo anno la sua purezza iniziale - anche per i cittadini di Roma che vanno ad abitare nelle nuove città - e si trasforma, a seconda delle zone geografiche nelle quali viene parlato, in un linguaggio del tutto diverso. Questo fenomeno si verifica ovunque nei territori sottomessi ai Romani. A contatto con la lingua e con i dialetti dei Celti, per esempio, il latino si imbastardisce in misura ancora maggiore. Mentre la lingua scritta "tiene duro", quella affidata alla gente che la usa a proprio piacimento e in funzione delle proprie necessità, perde le caratteristiche originarie mano a mano che acquisisce i caratteri celtici, trasformandosi in un "latino volgare" che, col tempo, diverrà dialetto prima e italiano poi, pur conservando un'impronta tipica e collegabile alla sua particolare origine. Questo fenomeno linguistico è comune a tutti i territori conquistati dai Romani; ma non si esaurisce qui. Un'ulteriore differenza delle varie parlate è data da una vera e propria polverizzazione di suoni, cadenze, vocaboli ed etimi, nell'ambito di ogni singola zona che, come risultato, dà origine a dialetti diversi tra loro. Quelli dell'area lombarda rimangono così per sempre legati in gran parte al latino (per un settanta per cento circa), e alle parlate gallo-italiche che lo precedevano. Influenze del latino e del greco Che il latino sia presente in moltissime parole lombarde non è un mistero. Si può ricordare, tra le molte, amita (zia), che in milanese è divenuta medinna, oggi non più usata. Ancora: pistrinum (forno), che in dialetto ambrosiano è prestìn; situla (secchio), che in milanese è sidella; pascua (spiazzo erboso), che in dialetto diventa pasquée. Si potrebbe continuare per pagine intere. E non è solo il latino a farla da padrone. Il greco regala al nostro dialetto milanesissime parole: basèll (gradino); usmà (odorare); erbión (pisello); pestón (fiasco), quest'ultima non più usata. I Goti e i Longobardi Col trascorrere degli anni, altre genti scendono nella pianura del Po, talvolta da dominatori, tal'altra in seguito a semplici trasmigrazioni, alla ricerca di terre fertili e luoghi sicuri. Sappiamo quanto la nostra pianura, ben protetta dalle montagne alpine, abbia rappresentato per secoli l'ideale punto d'arrivo per tribù guerriere o pacifiche; nessuna meraviglia quindi, che la storia ci dica come, ad intervalli di tempo regolari, intere tribù - non si potevano infatti considerare popoli omogenei - venissero nell'attuale Lombardia trovandovi gente laboriosa, pacifica, dedita al lavoro dei campi e ai commerci, ben disposta, in ultima analisi, all'amalgama. Verso la fine del 400 d. C. sono i Goti di Alarico a scendere in Italia, mentre nel 568 è la volta dei Longobardi. I primi erano originari della Germania orientale mentre i secondi, che più a lungo si fermeranno tra noi, fino al punto di integrarsi con le popolazioni gallo-italiche che già abitavano la zona, provenivano dalla Germania occidentale. Sappiamo che il nome della nostra regione, Lombardia, proviene dai Longobardi dominatori.Quanto a questo popolo, noi non abbiamo conoscenze dirette del longobardo, nel senso che non ci è arrivato nessun testo scritto in quella lingua. A quei tempi, i pochi che sapevano scrivere scrivevano in latino. L'unica lingua germanica antica che ci sia sufficientemente nota è il gotico. Per quanto riguarda il longobardo, dobbiamo accontentarci dell'onomastica (per alcuni secoli, a parte qualche raro Paolo, tutti i nomi di persona sono germanici: Alighieri, Gualtiero, Guglielmo ecc.), della toponomastica, e di alcuni termini inseriti all'interno di un contesto latino: come guidrigildo, faida ecc.Da tutti questi indizzi, si può concludere che il tratto più caratteristico del longobardo era la seconda rotazione germanica, che lo avvicina al moderno tedesco. Così trincare (ted. trinken ingl. to drink), palla <> balla, palco <> balcone, panca <> banca, Ruperto <> Roberto, (Val)perga <> borgo; ma se la rotazione è segno sicuro di origine longobarda, non sempre la sua mancanza indica parola franca o gotica. Il longobardo ha avuto una grandissima influenza sullo sviluppo della lingua italiana, a nord come a sud: non dimentichiamo la Longobardia Minor, cioè i ducati longobardi di Spoleto e Benevento, che sono sopravvissuti fino all'arrivo dei Normanni. Ma anche a Venezia, a Roma e a Palermo, cioè là dove i longobardi non hanno mai messo piede, si dice guerra e non bellum. L'influenza delle lingue germaniche sulle moderne lingue romanze, e quindi del longobardo sull'italiano, è stata così forte da introdurvi non solo numerosi vocaboli, ma anche delle regole grammaticali; pensiamo per esempio all'uso degli infiniti preceduti da preposizione (comincio A parlare, finisco DI mangiare), uso che è sconosciuto al latino, e che è tipico delle lingue germaniche (inglese to + inf, tedesco zu + inf.). Le dominazioni straniere <> Lo spagnolo Passano i secoli, arrivano le dominazioni straniere "moderne". Prima fra tutte quella degli spagnoli che per lunghi anni tengono sotto il loro dominio la Lombardia, specie Milano, arrivando anche in Valtellina.Molti sono i vocaboli milanesi che sono nati a seguito del contatto prolungato con le parole spagnole; alcuni sono veramente tipici delle parlate lombarde, quali tomates (pomidoro), dallo spagnolo tomate; rosciada (acquazzone), da rociada; cometta (aquilone), da cometa; lócch (sciocco, stordito ed anche uomo "duro" della malavita), da lòco; fogôs (impetuoso), da fogoso; panposs (poltrone, pasticcione), da pamposado , ecc.. Tra i verbi robà (rubare), da robar: scusà (fare a meno), da excusar. Curioso, infine, il modo di dire testa de fèrr (prestanome), che proviene dallo spagnolo cabeza de fierro. Il francese Anche i francesi lasciano la loro brava traccia nella parlata dialettale di Milano, con alcune parole caratteristiche e dall'inconfondibile matrice transalpina: articiòcch (carciofo), deriva da artichaut; tiraboscion (cavaturaccioli) da tire-bouchon e così di seguito. Il tedesco La dominazione austriaca - la più vicina nel tempo tra le molte che Milano ha subito - ha influito non poco sul modo di vita degli ambrosiani. Sotto il regno di Maria Teresa d'Austria, Milano ha conosciuto un lungo periodo di benessere e di intensa attività commerciale che l'ha collocata, per mezzo dei suoi traffici, tra le prime città d'Europa. Era quindi fatale che un così stretto rapporto con quelli che i milanesi chiamano ancor oggi con un po' di irriverenza - "crucchi", finisse per lasciare qualche traccia anche nel dialetto di casa. Parole d'origine tedesca sono ranf (crampo), da krampff; sleppa (gran fetta), da schlepfen; lobbia (loggia),da laube. Tra i verbi, alcuni molto conosciuti e usati anche ai nostri tempi, troviamo trincà (sbevazzare), da trinken; sgurà (strofinare), da schuren; slòffen (dormire), da schlafen. Latino VolgarePer quanto riguarda il latino volgare si divise in una serie numerosa di parlate piú o meno diverse fra loro: sono i dialetti piemontese, ligure, lombardo, emiliano – toscano, romano – campano. Si puó quindi stabilire una certa divisione dei dialetti italiani: 1. Dialetti Italiani – Settentrionali - divisi a loro volta in:· Dialetti gallo–Italici (Lombardo; Piemontese; Ligure e Emiliano – Romagnolo)· Dialetti veneti· Dialetti istriani (Friuli) 2. Dialetti Centro-Meridionali - divisi a loro volta in:· Dialetti toscani · Dialetti mediani (Laziale; Umbro; Marchigiano Sett.)· Dialetti meridionali intermedi (Laziale; Umbro; Marchigiano Merid.; Abruzzese; Molisano; Peuglie; Salentino-parte nord (a sud si parla, tuttoggi, il greco antico); Campano)· Dialetti meridionali estremi (Calabria e Sicilia) 3. Dialetto Sardo - diviso in:· Dialetto logudorese-campidanese (Cagliari)· Dialetto sassarese-gallurese (Sassari) 4. Dialetto Ladino - diviso in:· Dialetto friulano· Dialetto ladino-dolomitico Fuori dei confini dello Stato italinano si parlano dialetti italiani: in Corsica, apparentemente alla Francia dal 1768 (i dialetti corsi rientrano nel gruppo CM); in Istria (dialetti istriani). Nel Cantone dei Grigioni (Svizzera) si parla il romancio o grigionese, che é una varietá del ladino.All’interno dei confini politici d’Italia vivono gruppi etnici di varia consistenza numerica, i quali parlano otto lingue (o varietá di lingua) diverse dall’italiano:; Provenzale (Alpi piemontesi: Torre Pellice; Calabria: Guardia Piemontese); Franco-provenzale (Valle d’Aosta; due comuni della provincia di Foggia); Tedesco (Alto Adige; varie zone delle Alpi e delle Prealpi); Sloveno (Alpi Guilie); Catalano (Sardegna; Alghero); Albanese (vari comune del Meridione e della Sicilia); Greco (alcune parti della Calabria e del Salento) Si colloca una questione: I cosiddetti dialetti “galloitalici” sono dialetti italiani? Secondo alcuni linguisti, alcuni dialetti, come il Piemontese e il Lombardo, sono classificati come “separate entries”, e non come dialetti propriamente italiani. Va considerato che tali dialetti hanno risentito l’influenza di alcuni tratti di idiomi francesi (il prefisso “gallo” qui significa “francese”, non “gallico”)a) La presenza delle vocali cosiddette “procheile” (cioé “arrotondate”), vale a dire [ö] e [ü];b) La presenza (non sempre) della vocaçe indistinta [ë] in posizione finale;c) La palatalizzazione o spirantizzazione (non sempre) della gutturale sorda latina [k] (come cattus>francese chat)d) La riduzione della [a] altina tonica a [e], visibile particolarmente negli infiniti dei verbi della prima conjugazione (fenomeno limitato al piemontese ed al lombardo; ad esempio non é presente nel ligure). Alcuni di tali fenomeni, in ordine sparso, si presentano tra l’altro anche in diversi dialetti italiani meridionali: le vocali procheile in tursitano (provincia di Matera), la finale indistinta in tutti i dialetti pugliesi. Tra i fenomeni morfologici tipici dei dialetti galloitalici, l’único che puó essere ricondotto alla situazione d’oltralpe è forse la progressiva eliminazione del passato remoto (scomparso peró completamente anche in Sardegna ed in Romania...dialetti “gallosardi” o “gallorumeni” ????).L’errore di fondo è quindi quello di basarsi su alcune concordanze fonetiche (e/o raramente morfologiche) per operare una distinzione che non regge ad un’analisi approfondita e, la distinzione tra due sistemi linguistici (in questo caso, in senso lato, “francese” e “italiano”) non puó essere affidata a sporadiche concordanze di tale tipo, né tanto meno al lessico (ovvio che in piemontese abbondino i termini di origine francese, cosí come il maltese non cessa di essere un dialetto arabo magrebino seppure infarcito di parole italiane e siciliane); questa distinzione, dicevo, è afidatta a fatti morfosintattici:, uno dei piú impotanti, per esempio, è la formazione del plurale. Nel sistema linguistico francese si è evoluto il plurale derivato dall’accusativo latino in S (come in spagnolo, in portoghese ed in sardo), mentre l’italiano continua con il nominativo plurale in I (come in rumeno e nell’estinto dalmatico: il sistema linguistico italiano appartiene alla cosiddetta “Latinitá orientale”). Di fatto, nei dialetti galloitalici, il fenomeno della metafonesi (scomparsa della terminazione – I ha comunque causato un fenomeno di arrotondamento sulla vocale tonica, esempio in italiano: nodo, plur. nod-i; in milanese: nöd), fenomeno questo che ha certamente oscurato la terminazione tipica, ma dal punto di vista storico, ció rientra nel sistema linguistico italiano, non in quello francese.Sempre a proposito di dialetti “galloitalici”, Il veneto, dove non esiste la metafonesi, é, per cosí dire, un dialetto che se ne sta per conto suo, ció deriva dal fatto che in quella regione, la popolazione non era gallica, in origine, ma semmai “venetica” composta cioé dagli antichi veneti. Nei dialetti dell’Italia settentrionale le vocali finali delle parole cadono tranne quando c’é la “a”; nel Veneto invece possano rimanere anche altre vocali; per esempio “Avaro” in Veneto si dice “Crudo, peloso”mentre, negli altri dialetti Settentrionale é difficile trovare una vocale finale a meno che non si tratti, come in Emilia-Romagna, del caso di “Tiré” che peró é il participio passato del verbo “Tirare” per cui, alla fine “Avaro” in Veneto resterá “Avaro” mentre a Bologna sará “Aver”.Un altro elemento tipico dei dialetti del Nord é che le consonanti doppie diventano semplici. Nel Veneto, invece di “matto” si dice “mato”.INFLUENZE DIALETTALI NELLA VALTELLINAL’ABATE Pietro Monti, compilatore del “vocabolario dei dialetti della città e della diocesi di Como”, cosí scrive nel 1845 a proposito delle parlate della Valtellina:”Copioso e importante sopra gli altri è il meno alterato perchè, fin verso la fine del secolo passato, la valle sotto la Signoria dei Grigioni, senza buone strade e scuole, retta da barbare leggi, non amica ai forestieri, visse quasi divisa dal mondo. Le favelle delle valli del Malenco e Chiavenna e della valle del Livigno, posta solitaria al di lá della cresta delle Alpi, sono degne di speciale studio.Nel mercato di Sondrio i Valtellinesi stessi, poco intendono del parlare dei Paesani di Albsaggia e di Montagna;e i Bormiesi ancora meno capiscono il dialetto di Livigno.Poschiavo parla in generale come Tirano, mentre i Valtellinesi hanno voci usate nel Tirolo italiano”Pietro Monti ha visto giusto nella sua colorita diagnosi, circa la distribuzione delle varie “parlate” nell’ambito della odierna provincia di Sondrio. É pur vero che abbiamo avuto modo di riscontrare, assistendo alla nascita e alla formazione dei dialetti, che il Valtellinese, al pari degli altri dialetti della Lombardia occidentale (Varesotto, Comasco, Lodigiani etc.), proviene in gran parte dal ceppo milanese, a differenza delle Valli di Poschiavo, Bregaglia e altre minori situate nel territorio elvetico, che risentono in misura più marcata dell’influsso ladino, pur essendo le parlate di queste zone assolutamente “ lombarde”a tutti gli effetti. Ed eccoci nella parte occidentale della provincia di Sondrio la parte per intenderci che corre dall’alto Lago di Como fino al Passo dello Spluga: la Valchiavenna. Quì la parlata è più comasca che valtellinese.Restano i Gerghi. Più che dialetti veri e propri, i gerghi sono speciali linguaggi che uniscono un ben determinato gruppo di persone che possiede in comune un certo carattere distintivo (ad esempio il “mestiere” di calderaio, di spazzacamino, di venditore ambulante etc.)o, al contrario, particolari tradizioni che devono essere custodite dagli assalti del mondo esterno; uno dei mezzi per raggiungere lo scopo è dunque quello di usare uno speciale linguaggio noto solo a pochi e incomprensibile ai forestieri.Nella provincia di Sondrio sono molto noti i gerghi “calmùn”o “calma” di Lanzada e quello “Patuà sciôbar” di Valfurva-Valdisotto; per quanto, gli stessi, in via di estinzione, purtroppo, essendo parlati solo dagli anziani. IL DIALETTO NELLA VITA DI TUTTI I GIORNI Una veloce carrellata attraverso le parole meno note, curiose, originali- del dialetto valtellinese, potrà dare una idea di quanto sia ricca di fantasia la tradizione popolare. É straordinario come la semplicità della gente di montagna e la saggezza istintiva che possiede riescano a trovare un “nome” adatto per ogni oggetto, per ogni circostanza della vita, calzante al massimo ad ogni sensazione interiore dell’animo umano. La famiglia Il “Pà” (papà) e la “Mà” (mamma) rappresentano il fulcro della famiglia.Oltre ai genitori troviamo in casa, come è naturale, i figli. Il ragazzo è detto “Ràis” o anche “S’cèt” parola questa simile a quella bergamasca.La ragazza è invece la “Ràisa”o “S’cèta”. Com il termine di “Rèdes” (dal latino”haeredes”) si definisce il fanciullo, l’adolescente.La ragazza da marito è detta “Matèla”e il giovanotto, “Matèl”. L’af è il nonno ( dal latino”Avus”), mentre il bisavolo, se há la fortuna di arrivare ad una veneranda età, è chiamato com il simpatico termine di “Bacüch”. Piemontese ed occitanoSempre a proposito di dialetti "galloitalici". È vero, come si è fatto notare, che i dialetti stanno perdeno sempre di più i loro tratti distintivi, e vengono ad assimilarsi alla lingua ufficiale dello stato. Ma questo non è un criterio adeguato per la loro classificazione. Il piemontese è sicuramente un dialetto italiano, dal punto di vista morfologico; sembra una lingua strana e straniera solo a chi viene da regioni dove la pronuncia delle vocali ü, ö ed ë è sconosciuta o difficile. Non appartengono invece sicuramente all'insieme linguistico italiano né l'occitano delle valli occidentali del Piemonte, né il franco - provenzale della bassa val di Susa, di alcune aree del Canavese ecc. Ma anche in queste zone i parlanti non hanno chiara coscienza della loro identità linguistica. La parziale somiglianza di pronuncia e di vocabolario, ma soprattutto l'attrazione economica e culturale dei centri di pianura fa sì che queste parlate perdano poco per volta i loro tratti distintivi, e si assimilino sempre di più al piemontese. E` un fenomeno che è ormai quasi irreversibile, e rende la parlata delle vecchie generazioni, soprattutto nelle zone più isolate, diversa da quella delle giovani generazioni e dei centri più importanti. Io stesso, conversando con un anziano contadino della Valle Gesso, lo sentivo usare indifferentemente, a proposito della neve, sia neus, che è l'originario vocabolo occitano, sia fiòcco, un curioso incrocio fra il piemontese fiòca e la pronuncia occitana con la -o finale del femminile. In quelle stesse zone il pronome di prima persona singolare ieu è quasi completamente scomparso di fronte al piemontese mi ecc. Nelle zone franco - provenzali la lingua frequentemente usata è il piemontese, e la parlata originaria, anche se conosciuta, viene spesso usata con intenti caricaturali. Ma questi sono fenomeni di acculturazione, che derivano da vicende storiche e dal modo in cui nei secoli passati sono stati tracciati i confini nazionali; non sono caratteri propri delle parlate locali. Allo stesso modo credo che in Corsica ormai il dialetto locale, che è di tipo italico, sia soppiantato dal francese. P. S. A proposito di confini: l'idea bossiana di una Padania che va dalle sorgenti del Po all'Adriatico ripete pari pari i criteri geopolitici e militari ottocenteschi, secondo cui i confini etnici coincidono con quelli dei bacini idrografici. Idea disastrosa, che con la prima guerra mondiale ci ha fatto occupare il Sud Tirolo, che è tutto, meno che Italia, e con la seconda guerra mondiale ci ha fatto perdere l'Istria e la Dalmazia, che invece erano in gran parte italiane. Come si pronuncia la r del piemontese?La r della maggior parte delle zone del Piemonte è uguale alla r italiana. Non saprei dire della Val d'Aosta, dove lingua ufficiale è anche il francese (ma tutti parlano benissimo l'italiano, anche perché fanno affari per lo più con turisti italiani). È così sicuramente nel Torinese e nelle zone di pianura; la r moscia di Gianni Agnelli, di Oscar Luigi Scalfaro e di Fausto Bertinotti non è un carattere dialettale, ma un vezzo che anche ad orecchie piemontesi appare un po' ridicolo e pretenzioso. Lo stesso vale per le zone di influenza franco-provenzale (nord e nord-ovest) e per quelle di influenza occitana (ovest). In particolare la fonetica dell'occitano puro (non delle valli Chisone e Germanasca, che sono un caso particolare) è più simile a quella dell'italiano che non a quella del francese o del piemontese. Un mio amico di Casteldefino (alta valle Varaita, una zona occitana particolarmente conservatrice) diceva che suo padre, negli anni '50, era emigrato a Torino e aveva dovuto imparare il piemontese; ma non gli riuscì mai bene, e i suoi compagni di lavoro lo prendevano in giro perché parlava « come un Napoli » (come un meridionale). BONVESIN de la RIVA Facciamo un passo indietro fino alla fine del 1300. Il latino è sempre più “volgare”. Gli studiosi dell’epoca, gran partew dei quali appartenevano a vari ordini religiosi, nell’intento di dimostrare una nuova lingua com caratteri e dignità proprie, compilano elenchi di parole che altro non sono, alla resa dei conti, che la dimostrazione di come il dialetto sia largamente usato a tutti i livelli. È il caso di Bonvesin de la Riva (anno 1290). Per il verbo “Impaurirsi” usa “Stramìs”vocabolo, secondo lui, “tipico” del nuovo parlare “volgare” quando, nessuno ignora che in dialetto, si usa “Stremìs”.Poco posteriormente, nei differenti territori europei un tempo sottomessi ai Romani, cominciano ad apparire gli idiomi “Romanzi “, profondamente legati al latino. È il caso del portoghese del castigliano (spagnolo), del catalano, del francese, del provenzale, lingua oggi pressochè morta o parlata a solo a livello di dialetto e unicamente nelle regioni meridionali della Francia. Frattanto nella terra di Toscana, Dante Alighieri concretizza in maniera mirabile la lunga, faticosa scalata del nuovo parlare “volgare”, componewndo la Divina Commedia conferendo così al nuovo idioma dignità e la completezza di una vera e propria lingua. IL TOSCANO La caratteristica principale di questo dialetto è data proprio dallo stretto legame mantenuto con il latino. Se ad esempio prendiamo la parola “Sanctus” questa in toscano diventa “Santo”. L’”nct” latino è “Nt” e non diventa “Nd” come invece accade in molti dialetti meridionali.Il toscano è molto conservatore, e la ragione di ciò sta nel fatto che una buona parte della Toscana è rimasta per un certo periodo, abbastanza isolata dal resto del mondo. Infatti, a causa degli Appennini, era fuori dalle vie di comunicazione dal nord verso il sud e viceversa. Basti pensare all’itinerario che seguivano coloro che tornavano dai pellegrinaggi al santuario di Santiago di Compostella, nell’odierna Spagna. Per andare verso il sud giungevano nella Lucchesia, andavano dove ora si trova Altopascio ed evitavano la zona costiera dirigendosi, probabilmente, verso Siena, seguendo così una linea che praticamente lasciava fuori Firenze isolando così questa città e gran parte della Toscana; situazione questa che perdurerà per lo meno fino al Duecento-Trecento quando i mercanti apriranno finalmente altre vie di comunicazione .La Toscana, a sua volta vaveva ed ha fino ad oggi i propri dialetti:- Il caso di Pisa è tipico. Prima che Firenze la concquistasse, quì si parlava un dialetto che era simile a quello di Lucca che ancora oggi è diverso dal fiorentino. Il lucchese, aveva tratti più settentrionali, conseguenza del fatto sopra-accennato, che di là passava la via che dalnord portava a Roma.È tipico, ancora oggi, sentire nel contado lucchese: ”Bellessa” invece di “Bellezza”,”Piassa” invece di “Piazza”.Quanto poi alla simpatica aspirazione del toscano, alcuni sostengono che questo costituisca una “reminiscenza” della lingua etrusca che nonostante le conquiste romane avrebbe conservato le proprie “aspirate” nel “C” nel “CH” intervocalico ed anche nella “T”che in parte della Toscana è pronunciata come fosse un “Th. Come si è già accennato, La fortuna del toscano si basa sul consenso avuto da scrittori come Petrarca, Dante Boccaccio etc.Ad un certo momento, per ragioni culturali e letterarie è accaduto che autori del nord ed anche del sud, abbiano cominciato a scrivere in toscano, come ad esempio, Boiardo che era emiliano, o come Sannazzaro che era napoletano.Deve eseere considerato che nei secoli passati i dialetti si conservavano maggiormente nel tempo, mutavano com grande lentezza perchè mancavano occasioni di scambio tra gli abitanti delle diverse zone dell’Italia. Soltanto pochi privilegiati avevano l’occasione di spostarsi da un paese all’altro. Nel Medioevo, per esempio, viaggiavano soprattutto i commercianti e coloro che occupavano un posto alto nella scala sociale (i podestà, gli ambasciatori, i professori e gli studenti delle università, i prelati ed i nobili). Di conseguenza, non esistevano molte ragioni per per modificare il proprio modo di parlare quotidiano: cioè il proprio dialetto. Se i dialetti rimanevano immobili, diversa, invece, fu la situazione del fiorentino che rapidamente cominciò a diffondersi tra gli uomini colti della penisola a partire dal Trecento.Ciò avvenne soprattutto per quanto riguarda la lingua scritta. La stragrande maggioranza degli abitanti della Penisola continuava ad usare i dialetti, e non si ebbero grandi mutamenti fino alla fine della seconda metà dell’Ottocento, periodo questo in cui accadde un avvenimento storico e politico che ebbe grandi conseguenze sullo sviluppo della lingua italiana e sulle varie “parlate” in Italia:-L’unità di Italia, nel 1870 assieme alla conquista di Roma fece sì che l’Italiano, lingua parlata soltanto in Toscana e dalle persone “colte”, cominciasse a diffondersi presso l’intera popolazione.Deve essere chiaro che non c’è stata nella realtà, nessuna costrizione.Da noi non è accaduto come in Francia dove la lingua è stata stabilita con una legge o come in Inghilterra dove, la scelta di un certo dialetto come lingua generale è dipesa da vicende di carattere soprattutto politico.In Italia tutto è accaduto naturalmente. Quando non esisteva ancora una unità nazionale è avvenuta questa unificazione culturale. Ovviamente, i difensori ad oltranza dello sviluppo dei singoli dialetti nel nostro Paese affermano che c’è stata si! Una violenza dello stato italiano; ma ciò è riferito al 1870, alla fine del Risorgimento, a quando cioè è stato codificato quale sarebbe diventata la lingua ufficiale della Penisola. Ma anche in quella occasione lo Stato non ha fatto altro che prendere atto di quello che era già da tempo, il mezzo di comunicazione generale. DIALETTI MERIDIONALI Diamo ora un rapido sguardo ai dialetti meridionali e subito ci imbattiamo in una delle principali caratteristiche comuni a tutte le “parlate” meridionali data appunto dal gruppo “Nd” che diventa “NN”, si veda ad esempio la parola”Quando”che diventa”Quanno”. Laddove c’è una “Nt”, la stessa si trasforma in “Nd”. Il fenomeno della doppia n lo si riscontra anche nelle iscrizioni osco-umbre preromane; prova questa della continuità storica dall’osco-umbro fino ai dialetti attuali:- le popolazioni avevano si imparato il latino pur introducendovi quell’NN della propria radice linguistica precedente.Un altro fenomeno curioso è quello delle Consonanti invertite nel siciliano (“beddu” al posto di “bello”) il chè si verifica anche in Sardegna, in Corsica e in alcuni paesi delle Alpi Apuane in cui si sente dire “padda”invece di “palla”, mutamento questo attribuito ad un sostrato di popolazioni molto remote, precedenti ai Romani che nella loro lingua avrebbero avuto queste consonanti.Esistono per esempio località in provincia di Foggia, come Faeto e Celle San Vito, in cui dal Trecento si è diffuso il franco provenzale e a Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza, lo stesso è accaduto a partire dal Cinquecento. Esistono poi colonie gallo-italiche in Sicilia di provenienza naturalmente settentrionale. E questo in località come San Fratello, Novara da non confondere com l’omonima città del Piemonte, Sperlinga, Nicosia, Aidone, Piazza Armerina, Randazzo.In Sicilia ci sono state città che parlavano il greco. Basta pensare a Siracusa ed Agrigento, però ad un certo punto il greco pian piano è scomparso cedendo il passo al latino.Ma anche su questo argomento si verificano accese discussioni tra gli studiosi. Si discute cioè se gli insediamenti greci in Italia risalgono all’ottavo secolo avanti Cristo oppure si tratti invece di colonizzazioni posteriori, avvenute nell’era cristiana, più precisamente nel sesto, settimo secolo dopo Cristo.Gli insediamenti albanesi ci riconducono ai tempi in cui l’Albania è stata concquistata daí turchi nel secolo xv. È stato appunto allora che molti albanesi si sono rifugiati in Italia.E siamo così arrivati alla Sardegna che, a differenza delle altre regioni dell’Italia settentrionale, non ha subìto, se non lungo la costa e superficialmente, tutta una serie di invasioni da parte di altre popolazioni, e non ha avuto nella sua storia relazioni con genti di altri Paesi che sono alla base della rapida evoluzione dei dialetti.La Sardegna in tal senso è rimasta davvero un’isola ed há conservato nel tempo un tipo linguistico più vicino al latino di altri.Alla fine del nostro “viaggio panoramico” tra i dialetti italiani, soffermiamoci um pochino su un rapido quadro circa l’evoluzione della propria lingua italiana: UNA LINGUA IDEALE Non è molto che l’italiano è diventato una lingua popolare.Torniamo indietro al secolo XVIII.Due secoli fà, chi non fosse nato in Toscana doveva scrivere in una “lingua ideale”, poco adatta ad um contesto vivo, di uso concreto e non riconosciuta nella pratica. Per altro lato si presentava l’esigenza precisa di uma lingua comune, moderna, agile e disinvolta per parlare di cose “quotidiane”, per scrivere contenuti tecnici, utili, per uso di publico più amplio.Nei grandi centri Napoli, Milano, Torino, Venezia etc> la vita culturale era di fatto molto intensa, aperta al nuovo e all’Europa.Sorge così uma nuova classe, la borghesia. Il publico dei lettori diventa più vario e raffinato.L’esigenza di sostituire il dialetto in favore di uno strumento di conversazione medio e alla portata di tutti diventa ancor più evidente nel Settecento.SI PRENDE COSCIENZA DEL FATTO CHE STIA MANCANDO REALMENTE UNA “lingua nativa”.In Italia la comunicazione settoriale e specializzata era possibile solo a livelli più alti, non per la borghesia emergente e neanche per l’imprenditore che stesse necessitando di un piccolo manuale per istruire il contadino sul metodo migliore per potare le viti o per come si potesse praticare la “coltura” del Baco da seta. Quando un piemontese o un lombardo avesse avuto l’esigenza di parlare di “cose pratiche”, c’era da rimanere molto perplessi. Gli almanacchi di agricoltura per uso degli agronomi, o i piccoli manuali circa , ad esempio, l’allevamento delle pecore, erano scritti in un linguaggio ibrido oscillante tra, regionalismi e termini popolari.Nessuno dal Trecento al Settecento aveva ancora rinunciato alla lingua materna (il dialetto), e nessuno si era messo a studiare il toscano come oggi, si apprende l’italiano in quanto lingua di comunicazione inter-regionale.La lingua italiana ancora non esisteva, il fiorentino era stato adottato solo come lingua letteraria ed in particolare, come lingua lirica.Drovemo arrivare al Quattrocento e al Cinquecento perchè si percepisca la necessità di regole di grammatica.La prima grammatica fu di fatto quella Di Leon Battista Alberti.Nel Cinquecento incontriamo Regole grammaticali della volgar lingua del veneziano Giovanni Francesco Fortunio e, nel 1525 fu presentata l’opera Prose della volgar lingua di Pietro Bembo che ebbe fondamento sulla poesia del Petrarca e sulla prosa del Boccaccio. Per il resto c’era il dialetto come lingua di comunicazione ed il latino, insegnato nella scuola, come lingua delle scienze.La lingua che si forma tra il Settecento e l’Ottocento, nell’aurora del nostro imminente Risorgimento, non era sostentata da un centro politico o amministrativo, e per questo continuava ad essere idealizzato, come modello superiore, il linguaggio di Dante e Boccaccio. Anche il vocabolario che a partire dal Seicento fino al secolo passato, fu indispensabile ai nostri scrittori per apprendere a scrivere, era interamente basato sugli esempi degli autori toscani dal Trecento fino al Cinquecento.Si era innalzata una barriera ben forte tra la lingua e la propria comunicazione, tra l’italiano letterario, immobile e fisso in uma rigidezza senza alcun dubbio, impopolare e l’italiano “parlato.” Tutto ciò costituiva un grande problema. Si pensi, dice il Manzoni, “ad un siciliano che incontra un veneziano ed un genovese, parlando questi con un milanese, i quali, per educazione, dovessero smettere di parlare in dialetto per continuare la conversazione in italiano”!“L’italiano è una lingua morta” aveva scritto Manzoni ad un amico proprio per causa della “distanza tra la lingua scritta e la parlata”Nella più fortunata Francia tutti comprendevano Molìere! Nell’Italia, al contrario, la stessa satira del Parini, poeta, tra tutti, il più prossimo alla tematica popolare, non riuscì ad arrivare ai “destinatari”. LA SECONDA METÁ DELL’OTTOCENTO Costituita l’Italia, il problema riguardò appunto la questione della Lingua nazionale. Urgeva l’unità, “procurare e proporre tutte le provvidenze e le maniere con le quali si potesse realizzare la “popolarità” della “Buona lingua” e della “Buona pronuncia”. Concetto questo espresso dal Manzoni contenuto nella Relazione del 1869, nella commissione dallo Stesso presieduta da quello che allora era il ministro della istruzione, Broglio.Manzoni pensa che così come in Francia il francese si era diffuso per tutto il Paese, anche in Italia, sarebbe bastato scegliere uno degli “idiomi particolari” e renderlo accetto da tutti, trasformandolo così in un “idioma comune”. Ovviamente ciò sarebbe stato possibile solo con il “fiorentino”proprio per le ragioni sopra descritte. Si verifica in questo modo che “il linguaggio vivo e originale di una città diventa “linguaggio vivo e vero” di una intera nazione.Aderire al toscano significava, per una grande parte delle altre regioni, partire da zero, rinunciare alla propria storia.Proporre um linguaggio comune che avesse il centro in uma sola città o regione limitato quasi esclusivamente ad una classe, senza porsi il problema di approssimare aree geografiche e sociali diverse, fu um errore di Manzoni, per altro, chiaramente evidenziato da un grande glottologo del secolo passato, Graziadio Isaia Ascoli.La lingua di una città , egli dice, non può “supplire il commercio civile e letterario della nazione intera”.L’unificazione della lingua che aspirasse a trasformarsi anche in un “fatto popolare”, non poteva lasciare di basarsi sulla contribuzione delle forze culturali delle varie regioni e in ogni caso doveva essere il risultato di una maturazione collettiva realizzata nella storia.In realtà molte cose dovevano mutare perché il problema della lingua potesse avviarsi spontaneamente a soluzione.Di fatto, nel fertile clima di circolazione culturale creato dall'unità nazionale, la lingua, proprio per assolvere alle nuove funzioni cui era chiamata, aprì lentamente ma progressivamente le porte ai dialetti, vincendo le resistenze dei conservatori e dei puristi; e i dialetti vennero così depositando via via intorno al nucleo originale della lingua letteraria i loro contributi per la formazione di una lingua comune e comprensibile a tutti gli italiani.Ma il diffondersi della "buona lingua" - così l'aveva chiamata nel 1868 Emilio Broglio, allora ministro della pubblica istruzione e così la chiamano ancora oggi gli italofoni dei Grigioni - non costituì, almeno in un primo tempo, un pericolo reale per i dialetti: ricchi della loro vita bimillenaria e depositari di un grande patrimonio di cultura popolare, continuarono infatti ad essere sentiti come insostituibili, anche da chi aveva imparato a parlare in italiano. D'altra parte, quale lingua si proponeva in alternativa? L'italiano rimaneva essenzialmente lingua scritta e letteraria, il suo lessico era ancora lacunoso e povero in molti settori della vita pratica e non poteva sostituirsi ai dialetti. In realtà, nella prima metà del Novecento, le classi socialmente inferiori e poco scolarizzate continuarono l'uso esclusivo del dialetto, mentre le classi altamente scolarizzate crebbero bilingui: l'italiano a scuola e nelle situazioni formali, il dialetto in famiglia e fuori casa, in tutte le situazioni informali.D'altronde, fino al secondo dopoguerra, come sostiene polemicamente il linguista Peruzzi, il vocabolario nazionale era adatto «per discutere dell'immortalità dell'anima, per esaltare il valore civile, per descrivere un tramonto, per sciogliere un lamento su un amore perduto... non per parlare delle mille piccole cose della vita di tutti i giorni». E ancora nel 1968, Giacomo Devoto, presidente dell'Accademia della Crusca, scriveva a difesa della pacifica convivenza di lingua e dialetto: «La persona umana è per natura non monolingue, ma almeno bilingue». C'è una lingua pubblica, nazionale, «proiettata nel tempo, mirante a orizzonti lontani, destinata a raggiungere i confini che la storia ha assegnato alla nostra comunità linguistica», e c'è una lingua privata, «che si usa fra le mura domestiche, legata ad un desiderio di immediatezza e intimità. A questa bipartizione corrisponderebbe meravigliosamente, in teoria, la coppia di lingua e dialetto».Era la soluzione proposta già nell'Ottocento da Graziano Isaia Ascoli, ma la situazione linguistica italiana, a dispetto dell'autorevole opinione dei teorici, non si stabilizzò sulla scelta del bilinguismo. Le cause che concorsero a rendere difficile questa opzione ideale furono indubbiamente molte e complesse, ma non possiamo sottovalutare il fatto che tutta la pedagogia scolastica postunitaria fu esplicitamente tesa a screditare il dialetto, costantemente contrapposto alla "buona lingua". Tant'è vero che, già dall'inizio del secolo, l'uso esclusivo del dialetto aveva cominciato a classificare socialmente gli individui e fu in gran parte responsabile dell'insuccesso scolastico di quella «valanga dei traditori della zappa e della cazzuola» che non «capiscono nagotta», ai quali Augusto Monti, in un suo articolo del 1913, faceva senza mezzi termini risalire la causa principale della crisi della scuola media.La lotta contro i dialetti, si inasprì ulteriormente col fascismo, la cui politica linguistica, sostanzialmente reazionaria e antipopolare, mirò con accanimento a sradicare dal tessuto nazionale la "malerba dialettale". Fu così che all'uso del dialetto, che pure la Riforma Gentile aveva promosso a livello di scuola elementare, si venne accompagnando una connotazione di arretratezza. E ci si spiega come mai i genitori dialettofoni, quelli almeno che potevano farlo, si affrettarono ad insegnare ai loro figli quel tanto di italiano che erano riusciti ad imparare, nella speranza, in realtà del tutto infondata, di rendere loro più facile l'inserimento nella scuola, e soprattutto il conseguimento dell'ambita "licenza", che avrebbe assicurato loro il "posto" di lavoro.A partire dagli anni Cinquanta, l'intensificarsi delle comunicazioni, la forza di penetrazione dei mass-media, il prolungamento dell'obbligo scolastico, il fenomeno dell'urbanesimo e l'abbondono conseguente delle campagne, il generale innalzamento del livello economico e culturale e la maggiore mobilità sociale hanno creato le condizioni per un profondo rinnovamento della vita nazionale, che impresse anche una forte accelerazione al processo di italianizzazione della penisolaCome hanno reagito i dialetti di fronte all'avanzata inarrestabile dell'italiano? Diciamo anzitutto che i dialetti hanno continuato a svolgere un ruolo storico di grande rilievo in questa fase decisiva del processo di unificazione linguistica: la lingua nazionale, che aveva ancora una base estremamente povera, dal fecondo contatto coi dialetti è uscita rinsanguata e rimpolpata, e finalmente in grado di assolvere la sua funzione di strumento di comunicazione nazionale. Certo, gli scambi sono stati reciproci, perché anche i dialetti hanno assimilato parole e modi di dire dell'italiano, adattandoli al proprio sistema fonologico e grammaticale e attestando così un buon grado di reattività linguistica. Ma l'uso del dialetto fuori casa divenne sempre più marcato socialmente e soprattutto i giovani, ormai quasi tutti scolarizzati, optarono decisamente per l'italiano: nel ricambio generazionale a perdere progressivamente terreno è stato infatti il dialetto, come attestano i sondaggi più volte effettuati dalla Doxa negli ultimi trent'anni: l'uso del dialetto è in netto calo in tutte le regioni italiane, in corrispondenza del forte incremento dell'italofonia, dentro e fuori casa. D'altra parte, chi oggi continuasse a parlare esclusivamente il dialetto, si porrebbe proprio fuori dalla storia.I dialetti in ogni caso oppongono ancora una buona resistenza, soprattutto nelle zone agricole, nei piccoli centri, nei paesini di montagna, nel Nord-Est, nel Sud e nelle isole. L' ultima indagine Istat rivela che il 55 per cento della popolazione nazionale alterna ancora l'italiano con il dialetto. Ovviamente i dialetti van perdendo ovunque le loro caratteristiche locali più marcate, espellono le voci più arcaiche, si arricchiscono di parole italiane e di tratti comuni: le varietà si avvicinano e diventano sempre più reciprocamente comprensibili. Potrebbe darsi perciò che essi siano destinati ad essere via via assorbiti dagli italiani regionali, già attualmente contraddistinti dalla presenza di evidenti tratti dialettali. Così pensa per esempio il sociolinguista Gaetano Berruto, ma in fatto di lingua è difficile fare delle previsioni, e i pareri degli stessi esperti sono discordi. C'è chi, come Giuseppe Francescato, individua nell'influenza dell'italiano sui dialetti la causa maggiore della loro progressiva degradazione e perdita di identità e li vede ormai avviati ad una rapida e definitiva estinzione.C'è però anche chi ritiene ancora possibile una inversione di tendenza, e ne coglie qua e là i segni premonitori, perchè i dialetti sono una realtà sommersa, ma viva e sostanzialmente in buona salute. In effetti, ora che l'italiano, bene o male, lo parlano tutti ed è diventato lingua materna per la maggioranza della popolazione, ora che la contrazione d'uso del dialetto pare un fatto incontrovertibile, si assiste ad un risveglio di attenzione, ad un movimento di ripresa del dialetto, soprattutto nell'alta e media borghesia, presso la quale l'uso del dialetto non solo tiene, ma è addirittura in aumento. Si formano associazioni per la sua difesa, si istituiscono cattedre universitarie per il suo studio scientifico, si pubblicano riviste specializzate di dialettologia. E, fatto culturale di grande rilievo, si registra una grande fioritura di poesia dialettale, dove l'uso del dialetto non ha nulla a che fare con quel mascheramento di strapaese denunciato a suo tempo da Pavese, ma è piuttosto il ricorso ad uno strumento espressivo che sembra ancora rendere possibile quella assoluta aderenza al linguaggio interiore dell'anima, che è l'essenza della poesia lirica. Si pensi, oltre a Pier Paolo Pasolini, ad Andrea Zanzotto, a Franco Loi, a Delio Tessa.Anche Maria Corti, nota scrittrice e linguista, contrappone il dialetto come lingua viva ed espressiva alla lingua comune standardizzata, impersonale, semplificata, ripetitiva, «strumento di una comunicazione superficiale».Strane sorprese ci riserva la storia delle lingue: i dialetti che, quando tutti li parlavano erano ignorati o addirittura osteggiati dalla cultura ufficiale, ora che sembrano opporre le ultime resistenze per sopravvivere ai margini dell'italiano, sono riscoperti dai poeti come vitale alternativa alla consunzione del linguaggio letterario e sono ostentati, come osserva il linguista Alberto Sobrero, quasi status symbol dall'aristocrazia che, attraverso il dialetto ritorna alle sue radici e sottolinea con un certo orgoglio il suo legame secolare con la cultura locale.Si riuscirà dunque a salvare i dialetti? Avranno ancora un futuro, oppure l'attuale movimento di ripresa è solo l'espressione di chi si rifugia nel dialetto per tentare disperatamente di recuperare il mitico mondo dell'infanzia, lo stupore del primo magico contatto con la realtà?Una cosa comunque è certa: il legame che univa l'uso del dialetto con una società essenzialmente agricola si è irreversibilmente dissolto nel rapido processo di industrializzazione, che ha inghiottito le comunità locali, di cui i dialetti erano l'immediata espressione. La diffusione capillare dell'italiano, come osservava già Pasolini, «ha contribuito a rendere arcaici» i dialetti, allo stesso modo in cui l'avanzata del progresso tecnologico ha respinto ai margini quel mondo rurale, chiuso nell'immobile ciclicità del tempo e sostanzialmente estraneo al dinamismo del tempo aperto della modernità.Se le cose stanno davvero così, alle nuove generazioni non resterebbe altro che il compito, di per sé nobile e civile, di conservare testimonianza del patrimonio culturale del passato nei musei etnografici, e di affidare alla glottologia e alla filologia lo studio dei dialetti e della loro storia.Ma l'attuale società del malessere, superata ormai la fase dello stordimento narcotizzante del consumismo, avverte sempre più distintamente la lacerazione inferta all'uomo dallo sradicamento dal territorio, dalla spersonalizzante omologazione delle culture, che la logica del "progresso" ha tragicamente portato con sé.Di qui il bisogno diffuso e profondo di rivitalizzare le comunità locali: certo, non giova allo scopo il recupero nostalgico di valori, riti e costumanze irrimediabilmente superati e perduti. Occorrono fantasia, creatività, riflessione critica, disponibilità al dialogo e al confronto delle idee, per arrivare alla progettazione consapevole di una nuova rete di relazioni comunitarie, concrete e operanti nel tessuto sociale, tese a conservare, valorizzare, promuovere, scoprire le risorse dell'ambiente fisico e umano che ci circonda. Solo così le singole comunità potrebbero affondare nuove radici nel territorio, ridare un senso e un sapore al vivere insieme e ricostituire la propria nuova identità culturale. E i dialetti locali, grazie alla loro reattività di lingue ancora vive e capaci di trasformazione, potrebbero forse diventare il loro strumento più naturale di espressione e di riconoscimento. Le lingue parlate in ItaliaCome hanno reagito i dialetti di fronte all'avanzata inarrestabile dell'italiano? Diciamo anzitutto che i dialetti hanno continuato a svolgere un ruolo storico di grande rilievo in questa fase decisiva del processo di unificazione linguistica: la lingua nazionale, che aveva ancora una base estremamente povera, dal fecondo contatto coi dialetti è uscita rinsanguata e rimpolpata, e finalmente in grado di assolvere la sua funzione di strumento di comunicazione nazionale. Certo, gli scambi sono stati reciproci, perché anche i dialetti hanno assimilato parole e modi di dire dell'italiano, adattandoli al proprio sistema fonologico e grammaticale e attestando così un buon grado di reattività linguistica.Ma l'uso del dialetto fuori casa divenne sempre più marcato socialmente e soprattutto i giovani, ormai quasi tutti scolarizzati, optarono decisamente per l'italiano: nel ricambio generazionale a perdere progressivamente terreno è stato infatti il dialetto, come attestano i sondaggi più volte effettuati dalla Doxa negli ultimi trent'anni: l'uso del dialetto è in netto calo in tutte le regioni italiane, in corrispondenza del forte incremento dell'italofonia, dentro e fuori casa. D'altra parte, chi oggi continuasse a parlare esclusivamente il dialetto, si porrebbe proprio fuori dalla storia.I dialetti in ogni caso oppongono ancora una buona resistenza, soprattutto nelle zone agricole, nei piccoli centri, nei paesini di montagna, nel Nord-Est, nel Sud e nelle isole. L' ultima indagine Istat rivela che il 55 per cento della popolazione nazionale alterna ancora l'italiano con il dialetto. Ovviamente i dialetti van perdendo ovunque le loro caratteristiche locali più marcate, espellono le voci più arcaiche, si arricchiscono di parole italiane e di tratti comuni: le varietà si avvicinano e diventano sempre più reciprocamente comprensibili. Potrebbe darsi perciò che essi siano destinati ad essere via via assorbiti dagli italiani regionali, già attualmente contraddistinti dalla presenza di evidenti tratti dialettali. Così pensa per esempio il sociolinguista Gaetano Berruto, ma in fatto di lingua è difficile fare delle previsioni, e i pareri degli stessi esperti sono discordi. C'è chi, come Giuseppe Francescato, individua nell'influenza dell'italiano sui dialetti la causa maggiore della loro progressiva degradazione e perdita di identità e li vede ormai avviati ad una rapida e definitiva estinzione.C'è però anche chi ritiene ancora possibile una inversione di tendenza, e ne coglie qua e là i segni premonitori, perchè i dialetti sono una realtà sommersa, ma viva e sostanzialmente in buona salute. In effetti, ora che l'italiano, bene o male, lo parlano tutti ed è diventato lingua materna per la maggioranza della popolazione, ora che la contrazione d'uso del dialetto pare un fatto incontrovertibile, si assiste ad un risveglio di attenzione, ad un movimento di ripresa del dialetto, soprattutto nell'alta e media borghesia, presso la quale l'uso del dialetto non solo tiene, ma è addirittura in aumento. Si formano associazioni per la sua difesa, si istituiscono cattedre universitarie per il suo studio scientifico, si pubblicano riviste specializzate di dialettologia. E, fatto culturale di grande rilievo, si registra una grande fioritura di poesia dialettale, dove l'uso del dialetto non ha nulla a che fare con quel mascheramento di strapaese denunciato a suo tempo da Pavese, ma è piuttosto il ricorso ad uno strumento espressivo che sembra ancora rendere possibile quella assoluta aderenza al linguaggio interiore dell'anima, che è l'essenza della poesia lirica. Si pensi, oltre a Pier Paolo Pasolini, ad Andrea Zanzotto, a Franco Loi, a Delio Tessa.Da:http://www.unb.br/il/let/abpi2000/antoniani.htm