quinta-feira, 1 de outubro de 2009

Para quam queira compreender um pouco a "Questão da língua e dos dialetos" na Italia
ottobre 2009 08:08Home Articoli SEZIONE: Dialetto Lingua e dialetti in ItaliaMappa del SitoContattaciDVD disponibiliChi siamoLingua e dialetti in ItaliaScritto da Angelo Antoniani martedì, 05 agosto 2008 17:12Fonte: http://www.unb.br/il/let/abpi2000/antoniani.htmCasa D’ItaliaAssociação para Incremento das Relações Brasil-ItaliaEQS 208/209 lote A – Brasilia – DF – 70254-400Tel : 61 - 443-1747Fax : 61- 443-4888E-mail :' );//-->casaditaliabsb@uol.com.br Professore : ANGELO ANTONIANI LINGUA E DIALETTI IN ITALIA Per un linguista parlare di lingua o dialetto è la stessa identica cosa. Per un linguista l’ultimo dialetto del Molise ha la stessa dignità della lingua letteraria. Certo non ha la stessa storia. Quella storia che ha condotto alcuni di questi idiomi ad essere usati in un contesto più ristretto ed altri in uno molto più amplio. Per quanto riguarda le differenze và detto che le stesse sono meno numerose e meno importanti di quanto comunemente non si creda. Entrambi derivati dal Latino, entrambi sistemi linguistici complessi e variamente articolati, la lingua italiana e uno qualsiasi dei tanti dialetti parlati nella Penisola sono ugualmente legittimi per nascita e per sviluppo, e ugualmente funzionali nel loro uso. Come l’italiano, i nostri dialetti riflettono tradizioni e culture nobili; possiedono un lessico e una grammatica: sono a tutti gli efetti delle “lingue”. Vi sono ad ogni modo delle differenze.· In genere il dialetto è usato in una area più circoscritta rispetto alla lingua, la quale invece appare difusa in una area più vasta. I motivi di tale maggiore espansione sono culturali in Italia, politici in Francia e in Spagna. Come poi vedremo meglio, le opere del Dante, Petrarca e Boccaccio diedero un grande prestigio al fiorentino del trecento: questo dialetto, divenuto lingua d’arte attraverso l’elaborazione dei tre grandi scrittori, fu in seguito adottato dalle persone colte e dai centri di potere della Penisola. In Francia e in Spagna fu invece il potere monarchico ad imporre e diffondere il dialetto usato dalla corte: nacque così una lingua dello stato e dell’amministrazione riconosciuta daí sudditi come simbolo dell’unità nazionale.L’espansione di una lingua parlata su un’area geografica più ampia, il fatto che tale lingua, divenuta lo strumento della classe dominante, possa essere scritta dai letterati, dagli organi dell’amministrazione periferica e del potere centrale; la circostanza (molto importante) che essa miri a diventare più regolare dandosi una “norma” stabilita dai grammatici ed insegnata a scuola: tuti questi fattori tendono a differenziare la lingua dal dialetto.Per quanto riguarda il lessico, la lingua estende e perfeziona il vocabolario intellettuale (scrittori e scienziati scrivono di solito in lingua); il dialetto invece arricchisce soprattutto le terminologie che si riferiscono al mondo rurale. Possono “Essere rotte le uova nel cesto”nonostante esse siano adesso collocate in opportune confezioni di cartone.È molto lontano il tempo in cui “Berta filava“ tuttavia si continua a “Star diritto come un fuso”. La luce elettrica arriva fin nei più remoti angoli ma....ancora si continua a “Mantenere la candela” I carri di buoi sono scomparsi dalla scena ma ancora si collocano”I carri davanti ai buoi”.E, acora si può essere “L’ultima ruota del carro”e, sempre si correrà il rischio di “Chiudere la stalla dopo che i buoi sono già scpappati“. L’italiano e i dialetti anche ci collocano tra gli animali domestici tra gli orti delle fattorie”Scrivere come una gallina”, credersi “Il figlio della gallina bianca”, “Pigghi doi columbr cou uma fusiladh”, fingersi di “Gatto morto”, nel gruppo c’è sempre la “Pecora nera”. E ovviamente non poteva certo rimanere fuori dalla carrellata la vecchia e sana cucina contadina :”Negro come un calderone” ;”Sugiu como na’cazzarola”. “Stare al verde“, questo a causa dell’abitudine, in una determinata epoca, di tingere di verde il fondo dei candelieri o di rivestirlo com un foglio sottile colorato; da qui, l’idea di ”possedere qualcosa in quantità esigua”.”Fuogh de pagh”, vedere qualcuno com “a fumazz nos’oglios”, antichissime espressioni che si perdono nella notte dei tempi.Voltando “a bomba”al discorso delle differenze tra lingua e dialetto, e ai fattori di carattere sociale che li distinguono:1. La lingua subisce una codificazione, vale a dire, si operano delle scelte tra forme concorrenti e quindi si propongono dei modelli; tale processo non avviene di solito nel dialetto o comunque si verifica in misura ridotta;2. La lingua possiede un uso scritto, che manca per lo più ai dialetti;3. La lingua gode di un prestigio sociale superiore a quello dei dialetti;4. La lingua ha acquisito una dignità culturale superiore a quella dei dialetti. Queste distinzioni non sono sempre e ovunque presenti. Ciò è vero soprattutto per l’Italia dove si incontrano dialetti come, per esempio, il veneto ed il napoletano,che hanno subito una codificazione, possiedono un uso scritto ed una grande dignità culturale (si pensi ad esempio all’opera del Goldoni e del Basile). Tanto che si può concludere che, in fine, l’único criterio abbastanza sicuro per distinguere la lingua dal dialetto è la minore diffusione di quest’ultimo.Propriamente il termine dialetto (dal greco Diálektos “lingua”, derivato dal verbo Dialégomai “parlo”) indica due realtà diverse:1. Un sistema linguistico autonomo rispetto alla lingua nazionale quindi un sistema che há caratteri strutturali ed una storia distanti rispetto a quelli della lingua nazionale;2. Una varietà parlata della lingua nazionale, cioè una varietà dello stesso sistema; per esempio i dialects dell’anglo-americano sono varietà parlate dell’inglese degli Stati Uniti: ovviamente tali dialetti hanno gli stessi caratteri strutturali e la stessa storia della lingua nazionale. · Con l’espressione lingua nazionale s’intende il sistema linguistico adottato da una comunità, costituente una nazione, come contrassegno del proprio carattere etnico e come strumento dell’amministrazione, della scuola, degli usi ufficiali e scritti. Sarà opportuno a questo punto, soffermarci un pochino sulla nascita del dialetto:-È una storia affascinante, oltre ché del massimo interesse. Facciamo un balzo indietro nel tempo. Arriviamo così ad un periodo antecedente quello che rappresenta il punto di partenza e di riferimento costante per la nostra storia: la nascita di Roma e l'affermarsi, attraverso i secoli, della potenza latina. I latini L'odierna capitale dell'Italia fu fondata dai Latini che, incredibile ma vero, erano una tribù indo-germanica discesa in Italia al tempo della grande invasione indo-germanica d'Europa. Popolazioni cioè originarie delle zone poste ai confini tra l'Europa e l'Asia (gli Urali, il Caucaso, l'Iran ecc.), arrivate nelle nostre terre dopo aver sostato per un periodo di tempo non breve nel nord Europa, nell'area corrispondente grosso modo all'odierna Germania. Occorsero diversi secoli, è naturale, ma alla fine i Latini, e con essi Roma, riuscirono ad emergere e ad acquistare l'egemonia su tutti i popoli che abitavano la nostra penisola.Erano genti tra loro diverse a seconda delle regioni che occupavano. Nel sud dell'Italia vi erano colonie greche; nell'Italia centrale, oltre a gruppi affini ai Latini, si trovavano gli Italici del gruppo Osco-Umbro; l'attuale Toscana - ed anche ampie zone a nord degli Appennini - ospitavano gli Etruschi, una popolazione indo-europea, dalla civiltà antichissima. I popoli e le lingue dell'Italia del nord Ma spostiamoci a nord, verso l'area padana che a noi più interessa.Questa zona era abitata, prima della venuta dei Latini, da tribù mediterranee, liguri, retiche, iberiche (originarie della penisola occupata oggi da Spagna e Portogallo), del cui linguaggio nessuna traccia scritta è rimasta. Però non poche parole o "radici", a quanto affermano gli studiosi, denunciano senz'ombra di dubbio ancor oggi la loro appartenenza a queste antiche parlate pre-latine.Eccone alcuni esempi. All'elemento "mediterraneo" si fa risalire il termine gava (torrente) e quello di insubrium (nome di Milano prima della venuta dei Celti). Allo strato "ligure", invece, appartengono le radici clav (rupe sporgente) e pala (roccia).Alla lingua "retica" - secondo alcuni studiosi i Retici erano popolazioni montane originate da quelle liguri - si devono molte parole che in seguito entrano a far parte dei dialetti lombardi e di quelli della Svizzera italiana o che, al contrario, danno origine a "nomi" di località. Eccone alcune: barga (capanna), cous (grotta), nava (conca), crenna (fessura, screpolatura stretta e lunga nelle pareti rocciose), ganda (pietrame) ecc.. Il giurassico Altro linguaggio scomparso "ufficialmente" dai documenti della storia è il giurassico, contemporaneo del ligure (quindi come questo pre-latino) che pare abbia avuto origine nelle montagne dell'attuale Giura franco-svizzero.Confrontando alcuni vocaboli di questa lingua con il dialetto milanese - il principale del ceppo lombardo occidentale, dal quale sono poi derivati gli altri dialetti di parte della regione - troviamo sorprendenti affinità. L'articolo el (il) è rimasto in dialetto tale e quale; la parola magnin (calderaio ambulante), ha dato origine alla milanese magnan. Analogamente d'origine giurassica sono la guja (ghiaa in milanese), il pungolo col quale si aizzavano i buoi, il tavan (tafano), ed il verbo rougnasser (rognà in milanese, cioè "brontolare"). I Celti È poco dopo l'anno 600 a. C. che l'equilibrio etnico esistente nello stivale subisce un primo, robusto scossone. Alle popolazioni dominanti del nord, quelle liguri cioè, si mescolano i Celti, che i Romani più tardi chiameranno Galli. Di origine asiatica, i Celti arrivano in Italia dai paesi nordici, specie dalle terre dell'odierna Germania e della Francia del nord. L'impatto che determinano è robusto, più ancora l'influenza che esercitano sulle popolazioni e sul loro modo di vivere. I Celti finiscono così per condizionare in maniera determinante la vita, i costumi, la lingua delle genti preesistenti. L'influenza celtica è lunga e duratura. I vocaboli che portano sono nuovi, tipici. Parlano in prevalenza di guerra, di armi, di fortificazioni, di leggi. Le parole di origine celtica oggi sopravvissute nei dialetti settentrionali sono moltissime, pur se in seguito modificate o alterate dal latino dei Romani conquistatori. Vediamone alcune. Anzitutto i nomi di località: Mediolanum (Milano) deve la sua origine alla parola medio e lan(n)o. Quest'ultima in celtico significava "spazio recinto e piano", forse un luogo consacrato, quindi Mediolanum voleva dire "luogo di mezzo, paese in mezzo a una pianura". Brianza deriva da brig (luogo elevato); Lecco, deve il proprio nome alla radice celtica leukos (bosco). Altre parole celtiche sono: barros (cespuglieto), mosa (acquitrino) dunum (collina), paraveredus (stallaggio), brennos (capo), dervo (quercia), briva (ponte) e così di seguito. I Romani E arriviamo finalmente alla tanto attesa svolta storica, l'arrivo dei Romani, che prima stabiliscono "colonie" e accampamenti militari (Cremona, prima colonia di diritto latino, nell'anno 218 a. C., seguita nel 214 a. C. da Mantova) e, poco alla volta, sottomettono tutte le popolazioni dell'alta Italia. È opportuno ricordare che le principali città appartengono a tribù celtiche: Mediolanum (Milano) è legata agli Insubri; Laus Pompeia (Lodi) ai Boi, Bergamo agli Orumbovi, Brescia ai Cenomani, Ticinum (Pavia) ai liguri Laevi preesistenti ecc.; comunque sia, l'avanzata dei nuovi conquistatori è inarrestabile. Lo sconvolgimento che un evento storico del genere deve aver arrecato ai popoli del nord può essere facilmente immaginato. Il modo d'interpretare le leggi, di definire gli oggetti d'uso quotidiano, di comunicare col prossimo, cambia completamente. Chi arriva da Roma non impone con la forza la nuova cultura, ma fa in modo che questa si propaghi attraverso i canali che più le sono congeniali: l'istruzione, i pubblici uffici, i documenti del vivere quotidiano, gli spettacoli, i giochi. Il latino classico di Roma - quello di Marco Tullio Cicerone e di Publio Virgilio Marone, autore dell'Eneide - quello cioè che la classe dirigente e il mondo della cultura usano, rimane per lunghi periodi la "lingua" per eccellenza di coloro che redigono documenti, contratti, scrivono opere destinate ai posteri. Al contrario, il latino usato dal volgo, dalla gente umile, perde anno dopo anno la sua purezza iniziale - anche per i cittadini di Roma che vanno ad abitare nelle nuove città - e si trasforma, a seconda delle zone geografiche nelle quali viene parlato, in un linguaggio del tutto diverso. Questo fenomeno si verifica ovunque nei territori sottomessi ai Romani. A contatto con la lingua e con i dialetti dei Celti, per esempio, il latino si imbastardisce in misura ancora maggiore. Mentre la lingua scritta "tiene duro", quella affidata alla gente che la usa a proprio piacimento e in funzione delle proprie necessità, perde le caratteristiche originarie mano a mano che acquisisce i caratteri celtici, trasformandosi in un "latino volgare" che, col tempo, diverrà dialetto prima e italiano poi, pur conservando un'impronta tipica e collegabile alla sua particolare origine. Questo fenomeno linguistico è comune a tutti i territori conquistati dai Romani; ma non si esaurisce qui. Un'ulteriore differenza delle varie parlate è data da una vera e propria polverizzazione di suoni, cadenze, vocaboli ed etimi, nell'ambito di ogni singola zona che, come risultato, dà origine a dialetti diversi tra loro. Quelli dell'area lombarda rimangono così per sempre legati in gran parte al latino (per un settanta per cento circa), e alle parlate gallo-italiche che lo precedevano. Influenze del latino e del greco Che il latino sia presente in moltissime parole lombarde non è un mistero. Si può ricordare, tra le molte, amita (zia), che in milanese è divenuta medinna, oggi non più usata. Ancora: pistrinum (forno), che in dialetto ambrosiano è prestìn; situla (secchio), che in milanese è sidella; pascua (spiazzo erboso), che in dialetto diventa pasquée. Si potrebbe continuare per pagine intere. E non è solo il latino a farla da padrone. Il greco regala al nostro dialetto milanesissime parole: basèll (gradino); usmà (odorare); erbión (pisello); pestón (fiasco), quest'ultima non più usata. I Goti e i Longobardi Col trascorrere degli anni, altre genti scendono nella pianura del Po, talvolta da dominatori, tal'altra in seguito a semplici trasmigrazioni, alla ricerca di terre fertili e luoghi sicuri. Sappiamo quanto la nostra pianura, ben protetta dalle montagne alpine, abbia rappresentato per secoli l'ideale punto d'arrivo per tribù guerriere o pacifiche; nessuna meraviglia quindi, che la storia ci dica come, ad intervalli di tempo regolari, intere tribù - non si potevano infatti considerare popoli omogenei - venissero nell'attuale Lombardia trovandovi gente laboriosa, pacifica, dedita al lavoro dei campi e ai commerci, ben disposta, in ultima analisi, all'amalgama. Verso la fine del 400 d. C. sono i Goti di Alarico a scendere in Italia, mentre nel 568 è la volta dei Longobardi. I primi erano originari della Germania orientale mentre i secondi, che più a lungo si fermeranno tra noi, fino al punto di integrarsi con le popolazioni gallo-italiche che già abitavano la zona, provenivano dalla Germania occidentale. Sappiamo che il nome della nostra regione, Lombardia, proviene dai Longobardi dominatori.Quanto a questo popolo, noi non abbiamo conoscenze dirette del longobardo, nel senso che non ci è arrivato nessun testo scritto in quella lingua. A quei tempi, i pochi che sapevano scrivere scrivevano in latino. L'unica lingua germanica antica che ci sia sufficientemente nota è il gotico. Per quanto riguarda il longobardo, dobbiamo accontentarci dell'onomastica (per alcuni secoli, a parte qualche raro Paolo, tutti i nomi di persona sono germanici: Alighieri, Gualtiero, Guglielmo ecc.), della toponomastica, e di alcuni termini inseriti all'interno di un contesto latino: come guidrigildo, faida ecc.Da tutti questi indizzi, si può concludere che il tratto più caratteristico del longobardo era la seconda rotazione germanica, che lo avvicina al moderno tedesco. Così trincare (ted. trinken ingl. to drink), palla <> balla, palco <> balcone, panca <> banca, Ruperto <> Roberto, (Val)perga <> borgo; ma se la rotazione è segno sicuro di origine longobarda, non sempre la sua mancanza indica parola franca o gotica. Il longobardo ha avuto una grandissima influenza sullo sviluppo della lingua italiana, a nord come a sud: non dimentichiamo la Longobardia Minor, cioè i ducati longobardi di Spoleto e Benevento, che sono sopravvissuti fino all'arrivo dei Normanni. Ma anche a Venezia, a Roma e a Palermo, cioè là dove i longobardi non hanno mai messo piede, si dice guerra e non bellum. L'influenza delle lingue germaniche sulle moderne lingue romanze, e quindi del longobardo sull'italiano, è stata così forte da introdurvi non solo numerosi vocaboli, ma anche delle regole grammaticali; pensiamo per esempio all'uso degli infiniti preceduti da preposizione (comincio A parlare, finisco DI mangiare), uso che è sconosciuto al latino, e che è tipico delle lingue germaniche (inglese to + inf, tedesco zu + inf.). Le dominazioni straniere <> Lo spagnolo Passano i secoli, arrivano le dominazioni straniere "moderne". Prima fra tutte quella degli spagnoli che per lunghi anni tengono sotto il loro dominio la Lombardia, specie Milano, arrivando anche in Valtellina.Molti sono i vocaboli milanesi che sono nati a seguito del contatto prolungato con le parole spagnole; alcuni sono veramente tipici delle parlate lombarde, quali tomates (pomidoro), dallo spagnolo tomate; rosciada (acquazzone), da rociada; cometta (aquilone), da cometa; lócch (sciocco, stordito ed anche uomo "duro" della malavita), da lòco; fogôs (impetuoso), da fogoso; panposs (poltrone, pasticcione), da pamposado , ecc.. Tra i verbi robà (rubare), da robar: scusà (fare a meno), da excusar. Curioso, infine, il modo di dire testa de fèrr (prestanome), che proviene dallo spagnolo cabeza de fierro. Il francese Anche i francesi lasciano la loro brava traccia nella parlata dialettale di Milano, con alcune parole caratteristiche e dall'inconfondibile matrice transalpina: articiòcch (carciofo), deriva da artichaut; tiraboscion (cavaturaccioli) da tire-bouchon e così di seguito. Il tedesco La dominazione austriaca - la più vicina nel tempo tra le molte che Milano ha subito - ha influito non poco sul modo di vita degli ambrosiani. Sotto il regno di Maria Teresa d'Austria, Milano ha conosciuto un lungo periodo di benessere e di intensa attività commerciale che l'ha collocata, per mezzo dei suoi traffici, tra le prime città d'Europa. Era quindi fatale che un così stretto rapporto con quelli che i milanesi chiamano ancor oggi con un po' di irriverenza - "crucchi", finisse per lasciare qualche traccia anche nel dialetto di casa. Parole d'origine tedesca sono ranf (crampo), da krampff; sleppa (gran fetta), da schlepfen; lobbia (loggia),da laube. Tra i verbi, alcuni molto conosciuti e usati anche ai nostri tempi, troviamo trincà (sbevazzare), da trinken; sgurà (strofinare), da schuren; slòffen (dormire), da schlafen. Latino VolgarePer quanto riguarda il latino volgare si divise in una serie numerosa di parlate piú o meno diverse fra loro: sono i dialetti piemontese, ligure, lombardo, emiliano – toscano, romano – campano. Si puó quindi stabilire una certa divisione dei dialetti italiani: 1. Dialetti Italiani – Settentrionali - divisi a loro volta in:· Dialetti gallo–Italici (Lombardo; Piemontese; Ligure e Emiliano – Romagnolo)· Dialetti veneti· Dialetti istriani (Friuli) 2. Dialetti Centro-Meridionali - divisi a loro volta in:· Dialetti toscani · Dialetti mediani (Laziale; Umbro; Marchigiano Sett.)· Dialetti meridionali intermedi (Laziale; Umbro; Marchigiano Merid.; Abruzzese; Molisano; Peuglie; Salentino-parte nord (a sud si parla, tuttoggi, il greco antico); Campano)· Dialetti meridionali estremi (Calabria e Sicilia) 3. Dialetto Sardo - diviso in:· Dialetto logudorese-campidanese (Cagliari)· Dialetto sassarese-gallurese (Sassari) 4. Dialetto Ladino - diviso in:· Dialetto friulano· Dialetto ladino-dolomitico Fuori dei confini dello Stato italinano si parlano dialetti italiani: in Corsica, apparentemente alla Francia dal 1768 (i dialetti corsi rientrano nel gruppo CM); in Istria (dialetti istriani). Nel Cantone dei Grigioni (Svizzera) si parla il romancio o grigionese, che é una varietá del ladino.All’interno dei confini politici d’Italia vivono gruppi etnici di varia consistenza numerica, i quali parlano otto lingue (o varietá di lingua) diverse dall’italiano:; Provenzale (Alpi piemontesi: Torre Pellice; Calabria: Guardia Piemontese); Franco-provenzale (Valle d’Aosta; due comuni della provincia di Foggia); Tedesco (Alto Adige; varie zone delle Alpi e delle Prealpi); Sloveno (Alpi Guilie); Catalano (Sardegna; Alghero); Albanese (vari comune del Meridione e della Sicilia); Greco (alcune parti della Calabria e del Salento) Si colloca una questione: I cosiddetti dialetti “galloitalici” sono dialetti italiani? Secondo alcuni linguisti, alcuni dialetti, come il Piemontese e il Lombardo, sono classificati come “separate entries”, e non come dialetti propriamente italiani. Va considerato che tali dialetti hanno risentito l’influenza di alcuni tratti di idiomi francesi (il prefisso “gallo” qui significa “francese”, non “gallico”)a) La presenza delle vocali cosiddette “procheile” (cioé “arrotondate”), vale a dire [ö] e [ü];b) La presenza (non sempre) della vocaçe indistinta [ë] in posizione finale;c) La palatalizzazione o spirantizzazione (non sempre) della gutturale sorda latina [k] (come cattus>francese chat)d) La riduzione della [a] altina tonica a [e], visibile particolarmente negli infiniti dei verbi della prima conjugazione (fenomeno limitato al piemontese ed al lombardo; ad esempio non é presente nel ligure). Alcuni di tali fenomeni, in ordine sparso, si presentano tra l’altro anche in diversi dialetti italiani meridionali: le vocali procheile in tursitano (provincia di Matera), la finale indistinta in tutti i dialetti pugliesi. Tra i fenomeni morfologici tipici dei dialetti galloitalici, l’único che puó essere ricondotto alla situazione d’oltralpe è forse la progressiva eliminazione del passato remoto (scomparso peró completamente anche in Sardegna ed in Romania...dialetti “gallosardi” o “gallorumeni” ????).L’errore di fondo è quindi quello di basarsi su alcune concordanze fonetiche (e/o raramente morfologiche) per operare una distinzione che non regge ad un’analisi approfondita e, la distinzione tra due sistemi linguistici (in questo caso, in senso lato, “francese” e “italiano”) non puó essere affidata a sporadiche concordanze di tale tipo, né tanto meno al lessico (ovvio che in piemontese abbondino i termini di origine francese, cosí come il maltese non cessa di essere un dialetto arabo magrebino seppure infarcito di parole italiane e siciliane); questa distinzione, dicevo, è afidatta a fatti morfosintattici:, uno dei piú impotanti, per esempio, è la formazione del plurale. Nel sistema linguistico francese si è evoluto il plurale derivato dall’accusativo latino in S (come in spagnolo, in portoghese ed in sardo), mentre l’italiano continua con il nominativo plurale in I (come in rumeno e nell’estinto dalmatico: il sistema linguistico italiano appartiene alla cosiddetta “Latinitá orientale”). Di fatto, nei dialetti galloitalici, il fenomeno della metafonesi (scomparsa della terminazione – I ha comunque causato un fenomeno di arrotondamento sulla vocale tonica, esempio in italiano: nodo, plur. nod-i; in milanese: nöd), fenomeno questo che ha certamente oscurato la terminazione tipica, ma dal punto di vista storico, ció rientra nel sistema linguistico italiano, non in quello francese.Sempre a proposito di dialetti “galloitalici”, Il veneto, dove non esiste la metafonesi, é, per cosí dire, un dialetto che se ne sta per conto suo, ció deriva dal fatto che in quella regione, la popolazione non era gallica, in origine, ma semmai “venetica” composta cioé dagli antichi veneti. Nei dialetti dell’Italia settentrionale le vocali finali delle parole cadono tranne quando c’é la “a”; nel Veneto invece possano rimanere anche altre vocali; per esempio “Avaro” in Veneto si dice “Crudo, peloso”mentre, negli altri dialetti Settentrionale é difficile trovare una vocale finale a meno che non si tratti, come in Emilia-Romagna, del caso di “Tiré” che peró é il participio passato del verbo “Tirare” per cui, alla fine “Avaro” in Veneto resterá “Avaro” mentre a Bologna sará “Aver”.Un altro elemento tipico dei dialetti del Nord é che le consonanti doppie diventano semplici. Nel Veneto, invece di “matto” si dice “mato”.INFLUENZE DIALETTALI NELLA VALTELLINAL’ABATE Pietro Monti, compilatore del “vocabolario dei dialetti della città e della diocesi di Como”, cosí scrive nel 1845 a proposito delle parlate della Valtellina:”Copioso e importante sopra gli altri è il meno alterato perchè, fin verso la fine del secolo passato, la valle sotto la Signoria dei Grigioni, senza buone strade e scuole, retta da barbare leggi, non amica ai forestieri, visse quasi divisa dal mondo. Le favelle delle valli del Malenco e Chiavenna e della valle del Livigno, posta solitaria al di lá della cresta delle Alpi, sono degne di speciale studio.Nel mercato di Sondrio i Valtellinesi stessi, poco intendono del parlare dei Paesani di Albsaggia e di Montagna;e i Bormiesi ancora meno capiscono il dialetto di Livigno.Poschiavo parla in generale come Tirano, mentre i Valtellinesi hanno voci usate nel Tirolo italiano”Pietro Monti ha visto giusto nella sua colorita diagnosi, circa la distribuzione delle varie “parlate” nell’ambito della odierna provincia di Sondrio. É pur vero che abbiamo avuto modo di riscontrare, assistendo alla nascita e alla formazione dei dialetti, che il Valtellinese, al pari degli altri dialetti della Lombardia occidentale (Varesotto, Comasco, Lodigiani etc.), proviene in gran parte dal ceppo milanese, a differenza delle Valli di Poschiavo, Bregaglia e altre minori situate nel territorio elvetico, che risentono in misura più marcata dell’influsso ladino, pur essendo le parlate di queste zone assolutamente “ lombarde”a tutti gli effetti. Ed eccoci nella parte occidentale della provincia di Sondrio la parte per intenderci che corre dall’alto Lago di Como fino al Passo dello Spluga: la Valchiavenna. Quì la parlata è più comasca che valtellinese.Restano i Gerghi. Più che dialetti veri e propri, i gerghi sono speciali linguaggi che uniscono un ben determinato gruppo di persone che possiede in comune un certo carattere distintivo (ad esempio il “mestiere” di calderaio, di spazzacamino, di venditore ambulante etc.)o, al contrario, particolari tradizioni che devono essere custodite dagli assalti del mondo esterno; uno dei mezzi per raggiungere lo scopo è dunque quello di usare uno speciale linguaggio noto solo a pochi e incomprensibile ai forestieri.Nella provincia di Sondrio sono molto noti i gerghi “calmùn”o “calma” di Lanzada e quello “Patuà sciôbar” di Valfurva-Valdisotto; per quanto, gli stessi, in via di estinzione, purtroppo, essendo parlati solo dagli anziani. IL DIALETTO NELLA VITA DI TUTTI I GIORNI Una veloce carrellata attraverso le parole meno note, curiose, originali- del dialetto valtellinese, potrà dare una idea di quanto sia ricca di fantasia la tradizione popolare. É straordinario come la semplicità della gente di montagna e la saggezza istintiva che possiede riescano a trovare un “nome” adatto per ogni oggetto, per ogni circostanza della vita, calzante al massimo ad ogni sensazione interiore dell’animo umano. La famiglia Il “Pà” (papà) e la “Mà” (mamma) rappresentano il fulcro della famiglia.Oltre ai genitori troviamo in casa, come è naturale, i figli. Il ragazzo è detto “Ràis” o anche “S’cèt” parola questa simile a quella bergamasca.La ragazza è invece la “Ràisa”o “S’cèta”. Com il termine di “Rèdes” (dal latino”haeredes”) si definisce il fanciullo, l’adolescente.La ragazza da marito è detta “Matèla”e il giovanotto, “Matèl”. L’af è il nonno ( dal latino”Avus”), mentre il bisavolo, se há la fortuna di arrivare ad una veneranda età, è chiamato com il simpatico termine di “Bacüch”. Piemontese ed occitanoSempre a proposito di dialetti "galloitalici". È vero, come si è fatto notare, che i dialetti stanno perdeno sempre di più i loro tratti distintivi, e vengono ad assimilarsi alla lingua ufficiale dello stato. Ma questo non è un criterio adeguato per la loro classificazione. Il piemontese è sicuramente un dialetto italiano, dal punto di vista morfologico; sembra una lingua strana e straniera solo a chi viene da regioni dove la pronuncia delle vocali ü, ö ed ë è sconosciuta o difficile. Non appartengono invece sicuramente all'insieme linguistico italiano né l'occitano delle valli occidentali del Piemonte, né il franco - provenzale della bassa val di Susa, di alcune aree del Canavese ecc. Ma anche in queste zone i parlanti non hanno chiara coscienza della loro identità linguistica. La parziale somiglianza di pronuncia e di vocabolario, ma soprattutto l'attrazione economica e culturale dei centri di pianura fa sì che queste parlate perdano poco per volta i loro tratti distintivi, e si assimilino sempre di più al piemontese. E` un fenomeno che è ormai quasi irreversibile, e rende la parlata delle vecchie generazioni, soprattutto nelle zone più isolate, diversa da quella delle giovani generazioni e dei centri più importanti. Io stesso, conversando con un anziano contadino della Valle Gesso, lo sentivo usare indifferentemente, a proposito della neve, sia neus, che è l'originario vocabolo occitano, sia fiòcco, un curioso incrocio fra il piemontese fiòca e la pronuncia occitana con la -o finale del femminile. In quelle stesse zone il pronome di prima persona singolare ieu è quasi completamente scomparso di fronte al piemontese mi ecc. Nelle zone franco - provenzali la lingua frequentemente usata è il piemontese, e la parlata originaria, anche se conosciuta, viene spesso usata con intenti caricaturali. Ma questi sono fenomeni di acculturazione, che derivano da vicende storiche e dal modo in cui nei secoli passati sono stati tracciati i confini nazionali; non sono caratteri propri delle parlate locali. Allo stesso modo credo che in Corsica ormai il dialetto locale, che è di tipo italico, sia soppiantato dal francese. P. S. A proposito di confini: l'idea bossiana di una Padania che va dalle sorgenti del Po all'Adriatico ripete pari pari i criteri geopolitici e militari ottocenteschi, secondo cui i confini etnici coincidono con quelli dei bacini idrografici. Idea disastrosa, che con la prima guerra mondiale ci ha fatto occupare il Sud Tirolo, che è tutto, meno che Italia, e con la seconda guerra mondiale ci ha fatto perdere l'Istria e la Dalmazia, che invece erano in gran parte italiane. Come si pronuncia la r del piemontese?La r della maggior parte delle zone del Piemonte è uguale alla r italiana. Non saprei dire della Val d'Aosta, dove lingua ufficiale è anche il francese (ma tutti parlano benissimo l'italiano, anche perché fanno affari per lo più con turisti italiani). È così sicuramente nel Torinese e nelle zone di pianura; la r moscia di Gianni Agnelli, di Oscar Luigi Scalfaro e di Fausto Bertinotti non è un carattere dialettale, ma un vezzo che anche ad orecchie piemontesi appare un po' ridicolo e pretenzioso. Lo stesso vale per le zone di influenza franco-provenzale (nord e nord-ovest) e per quelle di influenza occitana (ovest). In particolare la fonetica dell'occitano puro (non delle valli Chisone e Germanasca, che sono un caso particolare) è più simile a quella dell'italiano che non a quella del francese o del piemontese. Un mio amico di Casteldefino (alta valle Varaita, una zona occitana particolarmente conservatrice) diceva che suo padre, negli anni '50, era emigrato a Torino e aveva dovuto imparare il piemontese; ma non gli riuscì mai bene, e i suoi compagni di lavoro lo prendevano in giro perché parlava « come un Napoli » (come un meridionale). BONVESIN de la RIVA Facciamo un passo indietro fino alla fine del 1300. Il latino è sempre più “volgare”. Gli studiosi dell’epoca, gran partew dei quali appartenevano a vari ordini religiosi, nell’intento di dimostrare una nuova lingua com caratteri e dignità proprie, compilano elenchi di parole che altro non sono, alla resa dei conti, che la dimostrazione di come il dialetto sia largamente usato a tutti i livelli. È il caso di Bonvesin de la Riva (anno 1290). Per il verbo “Impaurirsi” usa “Stramìs”vocabolo, secondo lui, “tipico” del nuovo parlare “volgare” quando, nessuno ignora che in dialetto, si usa “Stremìs”.Poco posteriormente, nei differenti territori europei un tempo sottomessi ai Romani, cominciano ad apparire gli idiomi “Romanzi “, profondamente legati al latino. È il caso del portoghese del castigliano (spagnolo), del catalano, del francese, del provenzale, lingua oggi pressochè morta o parlata a solo a livello di dialetto e unicamente nelle regioni meridionali della Francia. Frattanto nella terra di Toscana, Dante Alighieri concretizza in maniera mirabile la lunga, faticosa scalata del nuovo parlare “volgare”, componewndo la Divina Commedia conferendo così al nuovo idioma dignità e la completezza di una vera e propria lingua. IL TOSCANO La caratteristica principale di questo dialetto è data proprio dallo stretto legame mantenuto con il latino. Se ad esempio prendiamo la parola “Sanctus” questa in toscano diventa “Santo”. L’”nct” latino è “Nt” e non diventa “Nd” come invece accade in molti dialetti meridionali.Il toscano è molto conservatore, e la ragione di ciò sta nel fatto che una buona parte della Toscana è rimasta per un certo periodo, abbastanza isolata dal resto del mondo. Infatti, a causa degli Appennini, era fuori dalle vie di comunicazione dal nord verso il sud e viceversa. Basti pensare all’itinerario che seguivano coloro che tornavano dai pellegrinaggi al santuario di Santiago di Compostella, nell’odierna Spagna. Per andare verso il sud giungevano nella Lucchesia, andavano dove ora si trova Altopascio ed evitavano la zona costiera dirigendosi, probabilmente, verso Siena, seguendo così una linea che praticamente lasciava fuori Firenze isolando così questa città e gran parte della Toscana; situazione questa che perdurerà per lo meno fino al Duecento-Trecento quando i mercanti apriranno finalmente altre vie di comunicazione .La Toscana, a sua volta vaveva ed ha fino ad oggi i propri dialetti:- Il caso di Pisa è tipico. Prima che Firenze la concquistasse, quì si parlava un dialetto che era simile a quello di Lucca che ancora oggi è diverso dal fiorentino. Il lucchese, aveva tratti più settentrionali, conseguenza del fatto sopra-accennato, che di là passava la via che dalnord portava a Roma.È tipico, ancora oggi, sentire nel contado lucchese: ”Bellessa” invece di “Bellezza”,”Piassa” invece di “Piazza”.Quanto poi alla simpatica aspirazione del toscano, alcuni sostengono che questo costituisca una “reminiscenza” della lingua etrusca che nonostante le conquiste romane avrebbe conservato le proprie “aspirate” nel “C” nel “CH” intervocalico ed anche nella “T”che in parte della Toscana è pronunciata come fosse un “Th. Come si è già accennato, La fortuna del toscano si basa sul consenso avuto da scrittori come Petrarca, Dante Boccaccio etc.Ad un certo momento, per ragioni culturali e letterarie è accaduto che autori del nord ed anche del sud, abbiano cominciato a scrivere in toscano, come ad esempio, Boiardo che era emiliano, o come Sannazzaro che era napoletano.Deve eseere considerato che nei secoli passati i dialetti si conservavano maggiormente nel tempo, mutavano com grande lentezza perchè mancavano occasioni di scambio tra gli abitanti delle diverse zone dell’Italia. Soltanto pochi privilegiati avevano l’occasione di spostarsi da un paese all’altro. Nel Medioevo, per esempio, viaggiavano soprattutto i commercianti e coloro che occupavano un posto alto nella scala sociale (i podestà, gli ambasciatori, i professori e gli studenti delle università, i prelati ed i nobili). Di conseguenza, non esistevano molte ragioni per per modificare il proprio modo di parlare quotidiano: cioè il proprio dialetto. Se i dialetti rimanevano immobili, diversa, invece, fu la situazione del fiorentino che rapidamente cominciò a diffondersi tra gli uomini colti della penisola a partire dal Trecento.Ciò avvenne soprattutto per quanto riguarda la lingua scritta. La stragrande maggioranza degli abitanti della Penisola continuava ad usare i dialetti, e non si ebbero grandi mutamenti fino alla fine della seconda metà dell’Ottocento, periodo questo in cui accadde un avvenimento storico e politico che ebbe grandi conseguenze sullo sviluppo della lingua italiana e sulle varie “parlate” in Italia:-L’unità di Italia, nel 1870 assieme alla conquista di Roma fece sì che l’Italiano, lingua parlata soltanto in Toscana e dalle persone “colte”, cominciasse a diffondersi presso l’intera popolazione.Deve essere chiaro che non c’è stata nella realtà, nessuna costrizione.Da noi non è accaduto come in Francia dove la lingua è stata stabilita con una legge o come in Inghilterra dove, la scelta di un certo dialetto come lingua generale è dipesa da vicende di carattere soprattutto politico.In Italia tutto è accaduto naturalmente. Quando non esisteva ancora una unità nazionale è avvenuta questa unificazione culturale. Ovviamente, i difensori ad oltranza dello sviluppo dei singoli dialetti nel nostro Paese affermano che c’è stata si! Una violenza dello stato italiano; ma ciò è riferito al 1870, alla fine del Risorgimento, a quando cioè è stato codificato quale sarebbe diventata la lingua ufficiale della Penisola. Ma anche in quella occasione lo Stato non ha fatto altro che prendere atto di quello che era già da tempo, il mezzo di comunicazione generale. DIALETTI MERIDIONALI Diamo ora un rapido sguardo ai dialetti meridionali e subito ci imbattiamo in una delle principali caratteristiche comuni a tutte le “parlate” meridionali data appunto dal gruppo “Nd” che diventa “NN”, si veda ad esempio la parola”Quando”che diventa”Quanno”. Laddove c’è una “Nt”, la stessa si trasforma in “Nd”. Il fenomeno della doppia n lo si riscontra anche nelle iscrizioni osco-umbre preromane; prova questa della continuità storica dall’osco-umbro fino ai dialetti attuali:- le popolazioni avevano si imparato il latino pur introducendovi quell’NN della propria radice linguistica precedente.Un altro fenomeno curioso è quello delle Consonanti invertite nel siciliano (“beddu” al posto di “bello”) il chè si verifica anche in Sardegna, in Corsica e in alcuni paesi delle Alpi Apuane in cui si sente dire “padda”invece di “palla”, mutamento questo attribuito ad un sostrato di popolazioni molto remote, precedenti ai Romani che nella loro lingua avrebbero avuto queste consonanti.Esistono per esempio località in provincia di Foggia, come Faeto e Celle San Vito, in cui dal Trecento si è diffuso il franco provenzale e a Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza, lo stesso è accaduto a partire dal Cinquecento. Esistono poi colonie gallo-italiche in Sicilia di provenienza naturalmente settentrionale. E questo in località come San Fratello, Novara da non confondere com l’omonima città del Piemonte, Sperlinga, Nicosia, Aidone, Piazza Armerina, Randazzo.In Sicilia ci sono state città che parlavano il greco. Basta pensare a Siracusa ed Agrigento, però ad un certo punto il greco pian piano è scomparso cedendo il passo al latino.Ma anche su questo argomento si verificano accese discussioni tra gli studiosi. Si discute cioè se gli insediamenti greci in Italia risalgono all’ottavo secolo avanti Cristo oppure si tratti invece di colonizzazioni posteriori, avvenute nell’era cristiana, più precisamente nel sesto, settimo secolo dopo Cristo.Gli insediamenti albanesi ci riconducono ai tempi in cui l’Albania è stata concquistata daí turchi nel secolo xv. È stato appunto allora che molti albanesi si sono rifugiati in Italia.E siamo così arrivati alla Sardegna che, a differenza delle altre regioni dell’Italia settentrionale, non ha subìto, se non lungo la costa e superficialmente, tutta una serie di invasioni da parte di altre popolazioni, e non ha avuto nella sua storia relazioni con genti di altri Paesi che sono alla base della rapida evoluzione dei dialetti.La Sardegna in tal senso è rimasta davvero un’isola ed há conservato nel tempo un tipo linguistico più vicino al latino di altri.Alla fine del nostro “viaggio panoramico” tra i dialetti italiani, soffermiamoci um pochino su un rapido quadro circa l’evoluzione della propria lingua italiana: UNA LINGUA IDEALE Non è molto che l’italiano è diventato una lingua popolare.Torniamo indietro al secolo XVIII.Due secoli fà, chi non fosse nato in Toscana doveva scrivere in una “lingua ideale”, poco adatta ad um contesto vivo, di uso concreto e non riconosciuta nella pratica. Per altro lato si presentava l’esigenza precisa di uma lingua comune, moderna, agile e disinvolta per parlare di cose “quotidiane”, per scrivere contenuti tecnici, utili, per uso di publico più amplio.Nei grandi centri Napoli, Milano, Torino, Venezia etc> la vita culturale era di fatto molto intensa, aperta al nuovo e all’Europa.Sorge così uma nuova classe, la borghesia. Il publico dei lettori diventa più vario e raffinato.L’esigenza di sostituire il dialetto in favore di uno strumento di conversazione medio e alla portata di tutti diventa ancor più evidente nel Settecento.SI PRENDE COSCIENZA DEL FATTO CHE STIA MANCANDO REALMENTE UNA “lingua nativa”.In Italia la comunicazione settoriale e specializzata era possibile solo a livelli più alti, non per la borghesia emergente e neanche per l’imprenditore che stesse necessitando di un piccolo manuale per istruire il contadino sul metodo migliore per potare le viti o per come si potesse praticare la “coltura” del Baco da seta. Quando un piemontese o un lombardo avesse avuto l’esigenza di parlare di “cose pratiche”, c’era da rimanere molto perplessi. Gli almanacchi di agricoltura per uso degli agronomi, o i piccoli manuali circa , ad esempio, l’allevamento delle pecore, erano scritti in un linguaggio ibrido oscillante tra, regionalismi e termini popolari.Nessuno dal Trecento al Settecento aveva ancora rinunciato alla lingua materna (il dialetto), e nessuno si era messo a studiare il toscano come oggi, si apprende l’italiano in quanto lingua di comunicazione inter-regionale.La lingua italiana ancora non esisteva, il fiorentino era stato adottato solo come lingua letteraria ed in particolare, come lingua lirica.Drovemo arrivare al Quattrocento e al Cinquecento perchè si percepisca la necessità di regole di grammatica.La prima grammatica fu di fatto quella Di Leon Battista Alberti.Nel Cinquecento incontriamo Regole grammaticali della volgar lingua del veneziano Giovanni Francesco Fortunio e, nel 1525 fu presentata l’opera Prose della volgar lingua di Pietro Bembo che ebbe fondamento sulla poesia del Petrarca e sulla prosa del Boccaccio. Per il resto c’era il dialetto come lingua di comunicazione ed il latino, insegnato nella scuola, come lingua delle scienze.La lingua che si forma tra il Settecento e l’Ottocento, nell’aurora del nostro imminente Risorgimento, non era sostentata da un centro politico o amministrativo, e per questo continuava ad essere idealizzato, come modello superiore, il linguaggio di Dante e Boccaccio. Anche il vocabolario che a partire dal Seicento fino al secolo passato, fu indispensabile ai nostri scrittori per apprendere a scrivere, era interamente basato sugli esempi degli autori toscani dal Trecento fino al Cinquecento.Si era innalzata una barriera ben forte tra la lingua e la propria comunicazione, tra l’italiano letterario, immobile e fisso in uma rigidezza senza alcun dubbio, impopolare e l’italiano “parlato.” Tutto ciò costituiva un grande problema. Si pensi, dice il Manzoni, “ad un siciliano che incontra un veneziano ed un genovese, parlando questi con un milanese, i quali, per educazione, dovessero smettere di parlare in dialetto per continuare la conversazione in italiano”!“L’italiano è una lingua morta” aveva scritto Manzoni ad un amico proprio per causa della “distanza tra la lingua scritta e la parlata”Nella più fortunata Francia tutti comprendevano Molìere! Nell’Italia, al contrario, la stessa satira del Parini, poeta, tra tutti, il più prossimo alla tematica popolare, non riuscì ad arrivare ai “destinatari”. LA SECONDA METÁ DELL’OTTOCENTO Costituita l’Italia, il problema riguardò appunto la questione della Lingua nazionale. Urgeva l’unità, “procurare e proporre tutte le provvidenze e le maniere con le quali si potesse realizzare la “popolarità” della “Buona lingua” e della “Buona pronuncia”. Concetto questo espresso dal Manzoni contenuto nella Relazione del 1869, nella commissione dallo Stesso presieduta da quello che allora era il ministro della istruzione, Broglio.Manzoni pensa che così come in Francia il francese si era diffuso per tutto il Paese, anche in Italia, sarebbe bastato scegliere uno degli “idiomi particolari” e renderlo accetto da tutti, trasformandolo così in un “idioma comune”. Ovviamente ciò sarebbe stato possibile solo con il “fiorentino”proprio per le ragioni sopra descritte. Si verifica in questo modo che “il linguaggio vivo e originale di una città diventa “linguaggio vivo e vero” di una intera nazione.Aderire al toscano significava, per una grande parte delle altre regioni, partire da zero, rinunciare alla propria storia.Proporre um linguaggio comune che avesse il centro in uma sola città o regione limitato quasi esclusivamente ad una classe, senza porsi il problema di approssimare aree geografiche e sociali diverse, fu um errore di Manzoni, per altro, chiaramente evidenziato da un grande glottologo del secolo passato, Graziadio Isaia Ascoli.La lingua di una città , egli dice, non può “supplire il commercio civile e letterario della nazione intera”.L’unificazione della lingua che aspirasse a trasformarsi anche in un “fatto popolare”, non poteva lasciare di basarsi sulla contribuzione delle forze culturali delle varie regioni e in ogni caso doveva essere il risultato di una maturazione collettiva realizzata nella storia.In realtà molte cose dovevano mutare perché il problema della lingua potesse avviarsi spontaneamente a soluzione.Di fatto, nel fertile clima di circolazione culturale creato dall'unità nazionale, la lingua, proprio per assolvere alle nuove funzioni cui era chiamata, aprì lentamente ma progressivamente le porte ai dialetti, vincendo le resistenze dei conservatori e dei puristi; e i dialetti vennero così depositando via via intorno al nucleo originale della lingua letteraria i loro contributi per la formazione di una lingua comune e comprensibile a tutti gli italiani.Ma il diffondersi della "buona lingua" - così l'aveva chiamata nel 1868 Emilio Broglio, allora ministro della pubblica istruzione e così la chiamano ancora oggi gli italofoni dei Grigioni - non costituì, almeno in un primo tempo, un pericolo reale per i dialetti: ricchi della loro vita bimillenaria e depositari di un grande patrimonio di cultura popolare, continuarono infatti ad essere sentiti come insostituibili, anche da chi aveva imparato a parlare in italiano. D'altra parte, quale lingua si proponeva in alternativa? L'italiano rimaneva essenzialmente lingua scritta e letteraria, il suo lessico era ancora lacunoso e povero in molti settori della vita pratica e non poteva sostituirsi ai dialetti. In realtà, nella prima metà del Novecento, le classi socialmente inferiori e poco scolarizzate continuarono l'uso esclusivo del dialetto, mentre le classi altamente scolarizzate crebbero bilingui: l'italiano a scuola e nelle situazioni formali, il dialetto in famiglia e fuori casa, in tutte le situazioni informali.D'altronde, fino al secondo dopoguerra, come sostiene polemicamente il linguista Peruzzi, il vocabolario nazionale era adatto «per discutere dell'immortalità dell'anima, per esaltare il valore civile, per descrivere un tramonto, per sciogliere un lamento su un amore perduto... non per parlare delle mille piccole cose della vita di tutti i giorni». E ancora nel 1968, Giacomo Devoto, presidente dell'Accademia della Crusca, scriveva a difesa della pacifica convivenza di lingua e dialetto: «La persona umana è per natura non monolingue, ma almeno bilingue». C'è una lingua pubblica, nazionale, «proiettata nel tempo, mirante a orizzonti lontani, destinata a raggiungere i confini che la storia ha assegnato alla nostra comunità linguistica», e c'è una lingua privata, «che si usa fra le mura domestiche, legata ad un desiderio di immediatezza e intimità. A questa bipartizione corrisponderebbe meravigliosamente, in teoria, la coppia di lingua e dialetto».Era la soluzione proposta già nell'Ottocento da Graziano Isaia Ascoli, ma la situazione linguistica italiana, a dispetto dell'autorevole opinione dei teorici, non si stabilizzò sulla scelta del bilinguismo. Le cause che concorsero a rendere difficile questa opzione ideale furono indubbiamente molte e complesse, ma non possiamo sottovalutare il fatto che tutta la pedagogia scolastica postunitaria fu esplicitamente tesa a screditare il dialetto, costantemente contrapposto alla "buona lingua". Tant'è vero che, già dall'inizio del secolo, l'uso esclusivo del dialetto aveva cominciato a classificare socialmente gli individui e fu in gran parte responsabile dell'insuccesso scolastico di quella «valanga dei traditori della zappa e della cazzuola» che non «capiscono nagotta», ai quali Augusto Monti, in un suo articolo del 1913, faceva senza mezzi termini risalire la causa principale della crisi della scuola media.La lotta contro i dialetti, si inasprì ulteriormente col fascismo, la cui politica linguistica, sostanzialmente reazionaria e antipopolare, mirò con accanimento a sradicare dal tessuto nazionale la "malerba dialettale". Fu così che all'uso del dialetto, che pure la Riforma Gentile aveva promosso a livello di scuola elementare, si venne accompagnando una connotazione di arretratezza. E ci si spiega come mai i genitori dialettofoni, quelli almeno che potevano farlo, si affrettarono ad insegnare ai loro figli quel tanto di italiano che erano riusciti ad imparare, nella speranza, in realtà del tutto infondata, di rendere loro più facile l'inserimento nella scuola, e soprattutto il conseguimento dell'ambita "licenza", che avrebbe assicurato loro il "posto" di lavoro.A partire dagli anni Cinquanta, l'intensificarsi delle comunicazioni, la forza di penetrazione dei mass-media, il prolungamento dell'obbligo scolastico, il fenomeno dell'urbanesimo e l'abbondono conseguente delle campagne, il generale innalzamento del livello economico e culturale e la maggiore mobilità sociale hanno creato le condizioni per un profondo rinnovamento della vita nazionale, che impresse anche una forte accelerazione al processo di italianizzazione della penisolaCome hanno reagito i dialetti di fronte all'avanzata inarrestabile dell'italiano? Diciamo anzitutto che i dialetti hanno continuato a svolgere un ruolo storico di grande rilievo in questa fase decisiva del processo di unificazione linguistica: la lingua nazionale, che aveva ancora una base estremamente povera, dal fecondo contatto coi dialetti è uscita rinsanguata e rimpolpata, e finalmente in grado di assolvere la sua funzione di strumento di comunicazione nazionale. Certo, gli scambi sono stati reciproci, perché anche i dialetti hanno assimilato parole e modi di dire dell'italiano, adattandoli al proprio sistema fonologico e grammaticale e attestando così un buon grado di reattività linguistica. Ma l'uso del dialetto fuori casa divenne sempre più marcato socialmente e soprattutto i giovani, ormai quasi tutti scolarizzati, optarono decisamente per l'italiano: nel ricambio generazionale a perdere progressivamente terreno è stato infatti il dialetto, come attestano i sondaggi più volte effettuati dalla Doxa negli ultimi trent'anni: l'uso del dialetto è in netto calo in tutte le regioni italiane, in corrispondenza del forte incremento dell'italofonia, dentro e fuori casa. D'altra parte, chi oggi continuasse a parlare esclusivamente il dialetto, si porrebbe proprio fuori dalla storia.I dialetti in ogni caso oppongono ancora una buona resistenza, soprattutto nelle zone agricole, nei piccoli centri, nei paesini di montagna, nel Nord-Est, nel Sud e nelle isole. L' ultima indagine Istat rivela che il 55 per cento della popolazione nazionale alterna ancora l'italiano con il dialetto. Ovviamente i dialetti van perdendo ovunque le loro caratteristiche locali più marcate, espellono le voci più arcaiche, si arricchiscono di parole italiane e di tratti comuni: le varietà si avvicinano e diventano sempre più reciprocamente comprensibili. Potrebbe darsi perciò che essi siano destinati ad essere via via assorbiti dagli italiani regionali, già attualmente contraddistinti dalla presenza di evidenti tratti dialettali. Così pensa per esempio il sociolinguista Gaetano Berruto, ma in fatto di lingua è difficile fare delle previsioni, e i pareri degli stessi esperti sono discordi. C'è chi, come Giuseppe Francescato, individua nell'influenza dell'italiano sui dialetti la causa maggiore della loro progressiva degradazione e perdita di identità e li vede ormai avviati ad una rapida e definitiva estinzione.C'è però anche chi ritiene ancora possibile una inversione di tendenza, e ne coglie qua e là i segni premonitori, perchè i dialetti sono una realtà sommersa, ma viva e sostanzialmente in buona salute. In effetti, ora che l'italiano, bene o male, lo parlano tutti ed è diventato lingua materna per la maggioranza della popolazione, ora che la contrazione d'uso del dialetto pare un fatto incontrovertibile, si assiste ad un risveglio di attenzione, ad un movimento di ripresa del dialetto, soprattutto nell'alta e media borghesia, presso la quale l'uso del dialetto non solo tiene, ma è addirittura in aumento. Si formano associazioni per la sua difesa, si istituiscono cattedre universitarie per il suo studio scientifico, si pubblicano riviste specializzate di dialettologia. E, fatto culturale di grande rilievo, si registra una grande fioritura di poesia dialettale, dove l'uso del dialetto non ha nulla a che fare con quel mascheramento di strapaese denunciato a suo tempo da Pavese, ma è piuttosto il ricorso ad uno strumento espressivo che sembra ancora rendere possibile quella assoluta aderenza al linguaggio interiore dell'anima, che è l'essenza della poesia lirica. Si pensi, oltre a Pier Paolo Pasolini, ad Andrea Zanzotto, a Franco Loi, a Delio Tessa.Anche Maria Corti, nota scrittrice e linguista, contrappone il dialetto come lingua viva ed espressiva alla lingua comune standardizzata, impersonale, semplificata, ripetitiva, «strumento di una comunicazione superficiale».Strane sorprese ci riserva la storia delle lingue: i dialetti che, quando tutti li parlavano erano ignorati o addirittura osteggiati dalla cultura ufficiale, ora che sembrano opporre le ultime resistenze per sopravvivere ai margini dell'italiano, sono riscoperti dai poeti come vitale alternativa alla consunzione del linguaggio letterario e sono ostentati, come osserva il linguista Alberto Sobrero, quasi status symbol dall'aristocrazia che, attraverso il dialetto ritorna alle sue radici e sottolinea con un certo orgoglio il suo legame secolare con la cultura locale.Si riuscirà dunque a salvare i dialetti? Avranno ancora un futuro, oppure l'attuale movimento di ripresa è solo l'espressione di chi si rifugia nel dialetto per tentare disperatamente di recuperare il mitico mondo dell'infanzia, lo stupore del primo magico contatto con la realtà?Una cosa comunque è certa: il legame che univa l'uso del dialetto con una società essenzialmente agricola si è irreversibilmente dissolto nel rapido processo di industrializzazione, che ha inghiottito le comunità locali, di cui i dialetti erano l'immediata espressione. La diffusione capillare dell'italiano, come osservava già Pasolini, «ha contribuito a rendere arcaici» i dialetti, allo stesso modo in cui l'avanzata del progresso tecnologico ha respinto ai margini quel mondo rurale, chiuso nell'immobile ciclicità del tempo e sostanzialmente estraneo al dinamismo del tempo aperto della modernità.Se le cose stanno davvero così, alle nuove generazioni non resterebbe altro che il compito, di per sé nobile e civile, di conservare testimonianza del patrimonio culturale del passato nei musei etnografici, e di affidare alla glottologia e alla filologia lo studio dei dialetti e della loro storia.Ma l'attuale società del malessere, superata ormai la fase dello stordimento narcotizzante del consumismo, avverte sempre più distintamente la lacerazione inferta all'uomo dallo sradicamento dal territorio, dalla spersonalizzante omologazione delle culture, che la logica del "progresso" ha tragicamente portato con sé.Di qui il bisogno diffuso e profondo di rivitalizzare le comunità locali: certo, non giova allo scopo il recupero nostalgico di valori, riti e costumanze irrimediabilmente superati e perduti. Occorrono fantasia, creatività, riflessione critica, disponibilità al dialogo e al confronto delle idee, per arrivare alla progettazione consapevole di una nuova rete di relazioni comunitarie, concrete e operanti nel tessuto sociale, tese a conservare, valorizzare, promuovere, scoprire le risorse dell'ambiente fisico e umano che ci circonda. Solo così le singole comunità potrebbero affondare nuove radici nel territorio, ridare un senso e un sapore al vivere insieme e ricostituire la propria nuova identità culturale. E i dialetti locali, grazie alla loro reattività di lingue ancora vive e capaci di trasformazione, potrebbero forse diventare il loro strumento più naturale di espressione e di riconoscimento. Le lingue parlate in ItaliaCome hanno reagito i dialetti di fronte all'avanzata inarrestabile dell'italiano? Diciamo anzitutto che i dialetti hanno continuato a svolgere un ruolo storico di grande rilievo in questa fase decisiva del processo di unificazione linguistica: la lingua nazionale, che aveva ancora una base estremamente povera, dal fecondo contatto coi dialetti è uscita rinsanguata e rimpolpata, e finalmente in grado di assolvere la sua funzione di strumento di comunicazione nazionale. Certo, gli scambi sono stati reciproci, perché anche i dialetti hanno assimilato parole e modi di dire dell'italiano, adattandoli al proprio sistema fonologico e grammaticale e attestando così un buon grado di reattività linguistica.Ma l'uso del dialetto fuori casa divenne sempre più marcato socialmente e soprattutto i giovani, ormai quasi tutti scolarizzati, optarono decisamente per l'italiano: nel ricambio generazionale a perdere progressivamente terreno è stato infatti il dialetto, come attestano i sondaggi più volte effettuati dalla Doxa negli ultimi trent'anni: l'uso del dialetto è in netto calo in tutte le regioni italiane, in corrispondenza del forte incremento dell'italofonia, dentro e fuori casa. D'altra parte, chi oggi continuasse a parlare esclusivamente il dialetto, si porrebbe proprio fuori dalla storia.I dialetti in ogni caso oppongono ancora una buona resistenza, soprattutto nelle zone agricole, nei piccoli centri, nei paesini di montagna, nel Nord-Est, nel Sud e nelle isole. L' ultima indagine Istat rivela che il 55 per cento della popolazione nazionale alterna ancora l'italiano con il dialetto. Ovviamente i dialetti van perdendo ovunque le loro caratteristiche locali più marcate, espellono le voci più arcaiche, si arricchiscono di parole italiane e di tratti comuni: le varietà si avvicinano e diventano sempre più reciprocamente comprensibili. Potrebbe darsi perciò che essi siano destinati ad essere via via assorbiti dagli italiani regionali, già attualmente contraddistinti dalla presenza di evidenti tratti dialettali. Così pensa per esempio il sociolinguista Gaetano Berruto, ma in fatto di lingua è difficile fare delle previsioni, e i pareri degli stessi esperti sono discordi. C'è chi, come Giuseppe Francescato, individua nell'influenza dell'italiano sui dialetti la causa maggiore della loro progressiva degradazione e perdita di identità e li vede ormai avviati ad una rapida e definitiva estinzione.C'è però anche chi ritiene ancora possibile una inversione di tendenza, e ne coglie qua e là i segni premonitori, perchè i dialetti sono una realtà sommersa, ma viva e sostanzialmente in buona salute. In effetti, ora che l'italiano, bene o male, lo parlano tutti ed è diventato lingua materna per la maggioranza della popolazione, ora che la contrazione d'uso del dialetto pare un fatto incontrovertibile, si assiste ad un risveglio di attenzione, ad un movimento di ripresa del dialetto, soprattutto nell'alta e media borghesia, presso la quale l'uso del dialetto non solo tiene, ma è addirittura in aumento. Si formano associazioni per la sua difesa, si istituiscono cattedre universitarie per il suo studio scientifico, si pubblicano riviste specializzate di dialettologia. E, fatto culturale di grande rilievo, si registra una grande fioritura di poesia dialettale, dove l'uso del dialetto non ha nulla a che fare con quel mascheramento di strapaese denunciato a suo tempo da Pavese, ma è piuttosto il ricorso ad uno strumento espressivo che sembra ancora rendere possibile quella assoluta aderenza al linguaggio interiore dell'anima, che è l'essenza della poesia lirica. Si pensi, oltre a Pier Paolo Pasolini, ad Andrea Zanzotto, a Franco Loi, a Delio Tessa.Da:http://www.unb.br/il/let/abpi2000/antoniani.htm

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